De Ioanne Iacobo Menone, magistro / Epistula ad alumnos lycei Stellinii et utinensis studiorum universitatis

QUANTO PESA IL MANUALE?
«Quanto pesa il manuale di filosofia, anzi di storia della filosofia?»: questa era la domanda con la quale, invariabilmente, Gian Giacomo Menon cominciava la lezione introduttiva del corso in prima liceo. Avverto in voi un moto di stupore, identico a quello nostro di allora. Quando fece quella domanda d’esordio apparentemente insensata e bizzarra, ci guardammo tra di noi sconcertati e perplessi, qualcuno perfino ridacchiò. Ma non c’era affatto ragione di stupirsi. Che fanno infatti il bravo artigiano, e l’artista prima di cominciare a costruire/creare le loro opere, o il chirurgo prima di puntare il bisturi? Esaminano e controllano gli strumenti di lavoro, gli attrezzi del mestiere nonché i materiali su cui dovranno lavorare: li «prendono in carico». Ebbene, la prima lezione di filosofia con Menon consisteva proprio in questo: nella presa in carico del 1° volume del manuale come oggetto, come involucro e contenitore le cui caratteristiche esteriori e formali venivamo sollecitati a considerare e valutare accuratamente e in dettaglio prima di addentrarci nel contenuto: titolo, autore (-i), casa editrice, numero delle pagine, anno di edizione, eventuali errori o refusi di stampa (eravamo caldamente e insistentemente invitati a trovarli!)…
Poi, quando si passava al contenuto, di nuovo esso veniva definito e per così dire «misurato» in termini quantitativi. «La filosofia antica comincia a pagina tot e finisce a pagina tot; in totale occupa tot pagine, che divise per il numero complessivo di ore del corso annuale, fanno tot pagine all’ora; la filosofia antica comincia nel 585 a.C. e finisce nel 529 d.C. La filosofia medievale comincia nel 529 d.C. e finisce nel 1453».
Tutto ridotto a termini elementari ed essenziali, ostentatamente semplici e perciò assimilabili come dati certi, non suscettibili di letture vaghe o interpretazioni confuse ed equivoche. A noi il compito di leggere le 4-5 pagine di ciascun segmento della materia per conto nostro, a casa, e alla successiva ora in classe prendere l’iniziativa della presentazione di specifiche «richieste di spiegazione», per le quali si era invitati a fare apposita «domanda».«Domande! Fate domande!»: questa era, invariabilmente, dalla prima alla terza liceo, l’esortazione con la quale Menon chiudeva ogni sua lezione. E la «domanda» doveva seguire un preciso rituale, da rispettare come quando si riempie un modulo prestampato, identificando innanzitutto - con l’indicazione del numero della pagina e del paragrafo o della riga - il punto esatto del testo che ci era risultato incomprensibile o non chiaro.

LA LEZIONE COME SACRA RAPPRESENTAZIONE
Il nostro approccio allo studio della filosofia veniva così fin dall’inizio guidato lungo un itinerario strettamente regolato: in primo piano c’è l’allievo che affronta da solo il testo del manuale e deve accettare e abituarsi all’idea di essere lui il soggetto attivo, lui che con le proprie risorse deve misurarsi con l’oggetto da conoscere e che, inevitabilmente, si trova e si troverà sempre di fronte a punti oscuri o ad ostacoli alla comprensione, lui che deve comunque saper consapevolmente «identificare». Quindi, l’allievo fa domande. E di fronte a lui c’è l’insegnante, che «risponde». «Spiegare» per Menon equivale a «rispondere» . «Trattare la materia» equivale a «partecipare alla ricerca della soluzione di un problema» il cui contenuto è stato in qualche modo posto, colto, percepito, intuito dall’alunno. A quest’ultimo, anche se non sempre se ne rende conto, spetta, nella sacra rappresentazione, il ruolo di attore protagonista.
Descritto così, lo schema della lezione di filosofia risulta un gioco con poche semplici regole, che costringono i giocatori entro ruoli fissi rigidamente determinati: è così perché, con Menon, per poter cominciare a parlare di filosofia è necessario che il terreno su cui ci si muove sia accuratamente circoscritto; e che la posta in gioco, la materia da trattare, sia prima di tutto misurata quantitativamente.
Menon «recita» il suo ruolo servendosi di testi «facili» e si diverte a disegnare alla lavagna schemi elementari di inquadramento temporale e tematico dell'oggetto di studio. Lo fa consapevolmente, per una scelta di metodo «tattica»: si parte da premesse semplici e si rimane aderenti a nozioni elementari, ma questa apparente semplicità rende poi possibile lo svolgimento e il dipanarsi di una trama libera, che ripropone ogni giorno in modo imprevedibile l’esperienza originale di un incontro e di un dialogo alla pari tra un insegnante/mago da una parte e allievi più o meno ingenui dall’altra.
La scenografia è essenziale e molto simbolica: l’insegnante ogni giorno si cerca un posto tra gli allievi, non li guarda dalla cattedra né passeggia avanti e indietro tra i banchi spiegando e pontificando. No. Menon si siede fisicamente vicino a uno o una di noi, scegliendolo/la di solito per la posizione centrale; e «si pianta» tra i banchi come il perno della giostra che sta per iniziare a girare. Sta sul nostro stesso piano e sembra che voglia sfidarci, offrendosi come un bersaglio, a nostra totale disposizione,
Pretende «soltanto» - e non è certo pretesa da poco - che le domande e le osservazioni siano poste in modo rigoroso, nel rispetto di una severa disciplina formale, che scopriamo essere scientificamente studiata. In questo modo, ottiene che si creino le condizioni elementari di «sicurezza» per potersi lanciare in quel numero impegnativo che sta per iniziare.

COME UNA CORDATA ALPINISTICA
«Sicurezza»: come fa una guida alpinistica, nell'intraprendere una scalata alla testa di una cordata di principianti, sapendo che ogni salita ha le sue insidie per tutti, lui per primo. Una volta fissata «la sicurezza», la guida comincia ad avanzare, ad arrampicarsi, prima piano saggiando il terreno, poi con sempre maggiore scioltezza, sempre più in alto. Sembra assorto, nella sua arrampicata, ma ogni tanto si rivolge verso i suoi giovani compagni, invitandoli con lo sguardo a seguirlo. Loro non parlano, sono attenti e concentrati, ‘calamitati’ letteralmente dai suoi movimenti agili, precisi e sicuri; mentalmente li registrano, pensano che prima o poi saranno loro a doversi mettere a loro volta alla prova. Si sale, così, di lena e quasi senza soste per un’ora intera, ma con quella guida l’arrampicata è leggera, non ci si rende conto dello sforzo. Anche lui sembra divertirsi, lo si intuisce qualche volta dallo sguardo compiaciuto e un po’ beffardo che rivolge di tanto in tanto a quelli che gli tengono dietro con maggiore prontezza, che sembrano apprezzare di più l’itinerario che quel giorno ha scelto di fare. Ogni giorno un itinerario simile, eppure sempre diverso, sempre originale, sempre inaspettato. Niente di banale o ripetitivo. È un allenamento costante, quotidiano, metodico, condotto con straordinaria serietà anche se si mantiene quasi sempre su percorsi apparentemente facili, sembra voler evitare passaggi troppo impegnativi e rischiosi. Ci sarà tempo anche per quelli. La guida non lo dice ma lo fa capire: oggi non ve li godreste, sarebbero una fatica inutile senza la soddisfazione di arrivare in cima, imparate prima a saggiare bene il terreno, a familiarizzarvi con ogni genere di ambiente e di tempo e, seguendo le mie raccomandazioni, godetevi anche tutto quello che di più interessante si offre nel panorama che ci circonda.

LA «SCALATA» A HEIDEGGER
È così che arrivati all’inizio del terzo anno, ci è stato annunciato, senza tanti preamboli, che avremmo «scalato» la temuta Nordwand: Heidegger. Chi l’avrebbe detto. Se a uno di noi fosse passata per la testa un’idea simile e l’avesse proposta lui come lettura di classe, dubito che Menon si sarebbe trattenuto dall’espellerlo dall’aula, seduta stante. Chissà invece come gli è venuto in mente, sarà accaduto forse che per suo divertimento avrà deciso di fare un po’ di esercizio e di dimostrare (a sé stesso) che avremmo potuto farcela tranquillamente, come bere un bicchier d’acqua.
Così è, infatti. Scopriamo di essere allenati a usare la tecnica di studio a cui ci ha incessantemente abituato: misurare con cura la distanza da percorrere, suddividere il tracciato in parti, attenersi alla lettera del testo. In classe, collocato strategicamente, Menon legge, scandendo le frasi e le parole chiave, assicurandosi che ne comprendiamo bene il pieno significato. Senza quasi rendercene conto ci troviamo immersi nel discorso di Heidegger e riusciamo a seguirlo passo passo mentre si dipana, senza mai perdere il filo, come giovani esecutori orchestrali che affrontano per la prima volta uno spartito musicale ostico sotto la guida di un direttore prestigioso che invece già lo conosce a memoria.
Ci sono passaggi più facili, in cui è possibile riconoscere la corrispondenza o l’analogia con concetti già studiati, il riferimento a problemi classici della storia del pensiero e agli autori che sia pure superficialmente abbiamo già incontrato e imparato a conoscere. Menon li sottolinea sistematicamente questi passaggi, ce li fa notare quando si nascondono tra le righe del testo, ci rinvia alle pagine del Lamanna, ai luoghi dove li abbiamo originariamente incontrati e studiati, permettendoci così di usarli come «appigli» insperati, cui afferrarci saldamente per avanzare con più sicurezza nella comprensione del testo. E ci sono punti «difficili» in cui si avverte il rischio di rimanere bloccati come davanti a un muro. In questi passaggi cruciali, di grado superiore, Menon apre decisamente la strada formulando parafrasi accurate ma rigorosamente aderenti al significato dell’originale.
Non che da parte sua lasci intendere di voler prendere minimamente posizione nel merito. Anzi, al contrario di Armando Carlini, curatore di quell’edizione del testo e delle note (il quale ogni tanto si permette anche di correggere Heidegger o di commentare criticamente certi passaggi), con la sua rigorosa lettura Menon mantiene, invece, la più scrupolosa neutralità: si preoccupa che, per il tramite dell’elementare parafrasi del testo da lui proposta, il pensiero originale dell’autore ci arrivi puro e intatto come se lo ascoltassimo direttamente di persona dalla sua viva voce.
«Lettura di Heidegger», dunque, come esemplare saggio di applicazione della «menoniana ἐποχή», che non significa atteggiamento distaccato e scettico verso l’oggetto trattato, ma al contrario corretto avvicinamento all’autore e testimonianza di autentica rispettosa comprensione del suo pensiero. Ma anche «lettura in classe di un testo di filosofia» come «disvelamento» (ἀλήθεια) dell’atteggiamento di profondo rispetto e di affettuosa simpatia che Menon nutriva verso i suoi allievi.
In conclusione, che cosa abbiamo appreso da Menon? Che era straordinariamente all’avanguardia: l’insegnante non è un disseminatore d’informazione, il depositario indiscusso di un sapere universale, astratto e decontestualizzato quanto piuttosto un facilitatore, un tutor, un coach e counselor che guida l’allievo a riconoscere con consapevolezza e a ridefinire in modo riflessivo la trama delle sue competenze; lo studente, trattato come «attor (giovane) protagonista», deve avere un ruolo attivo e deve abituarsi a individuare problemi e a cercare di risolverli costruendo e verificando ipotesi, individuando le fonti e le risorse adeguate, operando collegamenti e relazioni all’interno di una disciplina e tra discipline diverse; l’allievo deve allenarsi alla lettura e all’interpretazione autonome di testi scritti. Insomma, ci ha fatto vedere come si «impara a imparare»… Insomma, tutto il contrario della Scuola-Edipo e della Scuola-Narciso descritte da Massimo Recalcati nel suo recente L’ora di lezione – Per un’erotica dell’insegnamento, un libro profondo, emozionante (e per me in certi punti anche commovente: nel senso che mi sono proprio commosso mentre lo leggevo) che vi consiglio caldamente di leggere, di far leggere (e vi direi perfino di consigliare, se non lo conosce già, anche a qualcuno dei vostri migliori insegnanti; con gli altri forse non vale neppure la pena di provarci!); e dove incontrerete e farete la conoscenza di Giulia Terzaghi…


«DER LIEBE GOTT STECKT IM DETAIL»
Quando spiegava un testo, un passo, Menon sembrava un talmudista chassidico (1) : si soffermava su ogni parola, riga e frase spiegando, citando, collegando, chiarendo, interpretando, approfondendo: etimi, lemmi, concetti… Allora noi capivamo poco il senso di quel suo continuo e instancabile insistere sulla precisione, il rigore, la scrupolosità e la cura dei dettagli di quelle che ‘sembrano’ minuzie e pedanterie, ma che in realtà – lo avremmo capito in seguito: all’università, nella vita, nelle professioni – diventano visioni interpretative che, come ci ricorda William Blake, ti consentono divedere «a World in a Grain of Sand»)… E poi, ditemi, nel brano che state traducendo quale sarà il significato più appropriato e corretto di ὁράω tra le 12 possibili sfumature (nella sola forma attiva) riportate dal vocabolario? Non sarà mica una fisima se il Montanari dedica un’intera pagina (1338) ai vari significati/sfumature di μετὰ. O no?
Eppure noi avremmo dovuto saperlo che per un chiodo mancante si può perdere un regno e che per un accento sbagliato o una virgola fuori posto si può perdere la vita! E anche voi dovreste saperlo. Mi guardate stupiti e perplessi? Ma In mancanza di un chiodo si perse il ferro di cavallo / In mancanza del ferro di cavallo si perse il cavallo / In mancanza del cavallo si perse il cavaliere / In mancanza del cavaliere si perse la battaglia / In mancanza della battaglia si perse il regno? Non è forse vero che se l’accento cade sulla iota (βίος) vivi, ma se cade sull’omicron la freccia scagliata dall’arco (βιός) potrebbe trapassarti il cuore? E che se stai per andare in battaglia un banale segno d’interpunzione deciderà se tornerai o meno dai tuoi cari (Ibis redibis non morieris in bello)? Che il dettaglio sia importante lo pensava anche Aby Warburg, il grande storico e critico dell’arte tedesco, che aveva eletto a suo motto la frase: «Der liebe Gott steckt im Detail», il buon Dio abita nel dettaglio (e anche se poi qualcuno poi lo corresse laicamente, sostituendo Teufel a Gott, il senso non cambia). Per restare nel campo delle arti, il regista cinematografico Giuseppe Tornatore ricorda sempre che più si è capaci di scavare e rivelare il «particulare», più si diventa universali e che un paesino siciliano se ben ‘ascoltato’, parla a tutto il mondo.
«Filologia – ha scritto Nietzsche - è quella onorevole arte che esige dal suo cultore soprattutto una cosa: farsi da parte, lasciarsi tempo, divenire silenzioso, divenire lento. È un’arte e una perizia da orafi della parola, che deve compiere un finissimo, attento lavoro e non raggiunge nulla se non lo raggiunge lento. Proprio per questo ci attira e ci incanta, in un’epoca della fretta, della precipitazione indecorosa e trafelata, che vuole sbrigare immediatamente ogni cosa, anche i libri, antichi o nuovi [che riflessione preveggente!]. Per una tale arte non è tanto facile sbrigare una qualsiasi cosa, perché insegna a leggere bene, cioè a leggere lentamente, in profondità, con riguardi, con attenzione, lasciando porte aperte, con dita e occhi delicati. Un’arte, una ribellione silenziosa e disciplinata al presente, un’ostinazione ad affinare l’interpretazione perché il rigore e la delicatezza prevalgano sulla parzialità e sulla fretta».
L’insegnamento di Menon era un quotidiano allenamento a difenderci da pressapochismo, superficialità, approssimazione, incompetenza, faciloneria, furbizia… Uno stile di insegnamento in perfetta e piena sintonia con gli apoftegmi e le massime di vita che ci elargiva ad ogni lezione: uscite dal gregge e dalla massa, siate egregi e non gregari, siate individui e autentici, conoscete voi stessi, non siate velleitari, non siate frettolosi nel dare giudizi ma praticate l’ἐποχή che per lui non significava atteggiamento scettico, distaccato bensì al contrario corretto avvicinamento all’autore e al testo, testimonianza di autentica e rispettosa comprensione. E poi, soprattutto, osate e rischiate sempre in nome della conoscenza, non fate come il George Gray di Spoon River che per paura del dolore, degli imprevisti, degli inganni dell’amore non ebbe il coraggio di alzare le vele della vita e di prendere i venti del destino e si ridusse a condurre un’esistenza senza senso torturato dall’inquietudine e dal vano desiderio.

POETA E CONTROVERSO E «SCANDALOSO» PROFESSORE
Menon - era nato a Medea, in provincia di Gorizia nel 1910 quando lì era ancora territorio austro-ungarico ed è morto a Udine nel 2000 - ha insegnato storia e filosofia allo Stellini ininterrottamente per 30 anni: dal 1939/’40 al 1967/’68. «Per me andare a scuola a insegnare era una festa», ha lasciato scritto in un appunto quando era già vecchio.
Per la società civile e scolastica del tempo Menon era un «sovversivo» e costituiva uno «scandalo»: controcorrente, anticonformista, provocatore beffardo (qui riaffiorava sempre l’ex futurista e dadaista che c’era in lui), eccentrico, anticonvenzionale, irrispettoso, snob, istrione, narciso, a volte crudele e feroce, maschilista, manipolatore…: lo si può riconoscere un po’ in ognuna di queste definizioni, ma nessuna di esse da sola è esaustiva, nessuna da sola può pretendere di definirlo; sono tutte vere ma incomplete.
Oltre che insegnare, l’attività che più lo ha impegnato per tutta la vita fu scrivere poesia: ne ha scritte oltre 100mila, ben più di un milione di versi, quasi tutte inedite. La poesia è stata l’unica amante alla quale rimase fedele per tutta la vita.

Se fate, come io ho fatto, un sondaggio tra i miei ex compagni di classe della 3ªA dell’anno scolastico 1967-’68, ancor oggi a quasi 50 anni di distanza, ne ricaverete risposte diverse e contraddittorie. Eccone un significativo florilegio dove ho alternato giudizi negativi e positivi: «A causa sua ho lacune spaventose in storia e filosofia»; «Mi preparò alla ben più ampia rottura con i paradigmi tradizionali che mi avrebbero interpellata nella Trento sociologica del ’68; la mia preparazione in filosofia per la maturità era molto buona; sollecitandoci a chiedere quando non avevamo capito, promuoveva il nostro spirito critico»; «Lo consideravo un complessato, maschilista ed egocentrico con gravi problemi di relazione con le donne e di un’infelicità incolmabile, inadatto a insegnare»; «Per noi che lo abbiamo avuto vicino e abbiamo goduto della sua presenza nelle aule e nei corridoi dello Stellini, ricordarlo e parlare di lui vuol dire continuare a riflettere e ricostruire i passaggi più autentici della nostra crescita e maturazione»; «Umanamente immaturo, intelligente e colto ma con una concezione aristocratica della cultura»; «La sua grandezza come insegnante: non era per niente provinciale, ci ha mostrato che fuori di lì: scuola, famiglia, Udine… c’era un mondo di pensiero in movimento e che noi eravamo liberi di accedervi»; «Come insegnante era una nullità, parlava solo per chi era in grado di seguirlo, era brutale e si divertiva a mettere a disagio le persone; io andai a ripetizione in vista dell’esame»; «Mi ha insegnato a scegliere e volere; provo per lui gli stessi sentimenti di allora: fascinazione e compassione, gratitudine per gli orizzonti che mi, ci ha aperto, tristezza per il sottofondo disperato e per il beffardo cinismo che traspariva dai suoi atteggiamenti e che ha segnato la sua vita»; «Mente e cultura di indiscutibile altezza e ampiezza, ma provavo disprezzo per le sue qualità umane e trovavo nei suoi gesti folli e nel suo maschilismo la stessa rozzezza dei contadini e degli operai del mio paese, solo che loro avevano la scusante di non essere acculturati; era un intellettuale borghese per il quale il sesso era il luogo dove affermare una superiorità che si sa frustrata»; «Praticava con gli allievi l’autovalutazione: che voto ti metti?; in realtà a me del voto non interessava nulla, mi interessava la sua stima; se l’insegnante non fosse stato Menon, avremmo un’idea molto povera della filosofia».
Ma c’è chi la pensa diversamente, e mica uno qualunque! Marino Rosso, già ordinario di filosofia del linguaggio all’università di Firenze nonché tra i massimi esperti italiani di Wittgenstein, uno che Menon non lo ha conosciuto di persona ma ha solo esaminato e valutato il commento-spiegazione che Menon fece in classe di Che cos’è la metafisica? di Heidegger, ha scritto: «Provo un’autentica ammirazione per le sue eccellenti note esplicative e penso alla soddisfazione che proverei nel contribuire a valorizzarle; è un’esperienza notevole leggere Heidegger in compagnia di Menon; prima o poi mi prenderò il tempo e il piacere di mettere in parole tutto il bene che penso dell'accompagnamento menoniano al testo di Heidegger».

Sono numerosi, tra gli allievi di Menon, coloro che in seguito si sono distinti nella vita e nelle professioni. E tutti lo ricordano con simpatia, ammirazione, riconoscenza. Ve ne cito solo alcuni: il neuroscienziato Giacomo Rizzolatti, scopritore dei neuroni specchio; il negoziatore di pace Giandomenico Picco, ex braccio destro dell’allora segretario generale dell’Onu Perez de Cuellar; il filologo classico della Normale di Pisa Antonio Carlini (che ancor oggi definisce Menon un «insegnante socratico»); il grecista Carlo Odo Pavese; Itala Vivan, tra i massimi esperti italiani di letteratura africana anglofona; l’attrice Anna Buonaiuto. Quirino Principe, decano dei critici musicali italiani, che dall’incontro con Menon ne ebbe, lui giovanissimo, la vita cambiata, oggi così scrive: «L’immagine che ho sempre avuto di lui [Menon] è di una luce che si accende improvvisa dopo un lungo buio».

IL RISCHIOSO RAPPORTO MAESTRO-ALLIEVO
E allora come la mettiamo? Una cosa comunque è certa: durante le sue lezioni non ci si annoiava, alle sue lezioni era difficile restare indifferenti. Un’ora con Menon poteva aprire un mondo; le sue lezioni erano avventure, incontri, esperienze intellettuali ed emotive profonde. Le sue lezioni erano boccate di ossigeno, di aria fresca e nuova; assistervi era come risvegliarsi ogni volta sotto l’effetto di quel benefico e vivificante «vento di primnavera» di cui parla Nietzsche nella Gaja scienza.
È accertato che in ognuna delle classi in cui ha insegnato – in 40 anni gli sono passate per le mani almeno due generazioni di studenti friulani – Menon ha suscitato grandi innamoramenti e passioni (con e senza virgolette!), soprattutto da parte delle sue giovani allieve. L’insegnante è sempre anche uno showman e «in ogni docente efficace e carismatico si cela sempre un attore, un professionista più o meno riconosciuto dell’eloquio e del gesto». Il rapporto maestro-allievo presenta sempre aspetti rischiosi: un professore ispirato, un maestro carismatico tengono in pugno lo spirito dei loro allievi e «i pericoli e i privilegi sono sconfinati». Ogni incursione nell’altro (s)confina con l’erotismo e lo innesca. Una lectio magistralis, un corso, un seminario, perfino una conferenza possono generare un’atmosfera satura di tensioni erotiche. Platone non ci ha forse avvertiti tanto tempo fa che non si apprende se non per via erotica? Un desiderio di compiacere il maestro è evidente sia nel Simposio sia nell’Ultima Cena.
È difficile non ammettere che «l’erotismo, coperto o dichiarato, fantasticato o messo in atto, è intrecciato intimamente all’insegnamento» e che nell’insegnamento è insito un inevitabile processo di seduzione. «Il sapere si può amare, si può trasformare in corpo erotico». Il docente si rivolge alla mente, ma anche al corpo dell’allievo, due sfere inseparabili. E Menon lo era, a tutti gli effetti, un seduttore e un dongiovanni intellettuale; un professore del desiderio di imparare. Nel corso dei millenni e nelle società più diverse, la situazione dell’insegnamento ha messo intimamente a contatto uomini e donne maturi con adolescenti e giovani. Socrate trovava appagamento nei ragazzi e nella loro radiosa nudità. È in questo groviglio che la bruttezza fisica può sedurre la bellezza. Non mancano esempi illustri: Alcibiade e Socrate, Cavalieri e Michelangelo… Neppure Menon era un adone: piccolo, tozzo, sdentato, ma la forza di seduzione del maestro non conosce rivali, il lògos diventava irresistibile... Fin dal Simposio di Platone, nell’insegnamento c’è un’attenzione speciale e particolare per l’erotico, per la sessualità in tutte le sue sfumature. Attenzione che ravviva e intorbida la trasmissione del sapere e della saggezza filosofica dai vecchi ai giovani, dagli uomini alle donne (talvolta, meno spesso, viceversa): si consideri la cecità del desiderio tra Alcibiade e Socrate, tra Fillide e Aristotele, Abelardo ed Eloisa, Hannah Arendt e Heidegger. La logica tra le braccia dell’amore!
Agostino sosteneva che una teoria della pedagogia fa sempre riferimento all’enigma del libero arbitrio e che quindi alla fine la responsabilità è sempre individuale; è altrettanto certo tuttavia che l’insegnamento è un’attività estremamente pericolosa per entrambe le parti in scena. Quel maestro reale che ti sta davanti prende nelle sue mani quella che è la parte più intima dei suoi allievi, quella che George Steiner con una splendida immagine definisce «la materia fragile e incandescente della loro possibilità» (2).

TRE DONI (CHE RIVERSAVA INTORNO A SÉ)
Tre anni fa, dopo aver riunito molti ex compagni di classe, ho constatato con piacevole stupore come Menon sia tutt’ora indimenticabile per la grande maggioranza dei suoi allievi. Come diavolo è possibile?, mi sono chiesto. Poi ho cercato di darmi qualche spiegazione. Aveva alcuni doni che riversava intorno a sé.
Intanto il carisma (χάριςμα), quell’attributo che significa grazia, autorevolezza, prestigio, dottrina, saggezza, sapienza, fascino… e che, come il coraggio di don Abbondio, uno se non ce l’ha difficilmente se lo può dare.
Poi aveva il λόγος, polisemica parola greca che vuol dire tante cose: parola, discorso, intelligenza; ragione universale e pensiero divino secondo Eraclito, ragione generatrice che conferisce ordine e vita a tutte le cose per gli stoici, quel qualcosa che contiene in sé il bello, il buono e il giusto stando a Plotino…
Terzo, Menon fu un impareggiabile pontifex, letteralmente un costruttore di ponti tra culture e discipline diverse, ponti gettati verso e sul mondo per sfuggire alle ristrettezze culturali e mentali della piccola provincia udinese; un «insegnante-testimone capace di aprire mondi attraverso la potenza erotica della parola e del sapere che essa sa vivificare» (Massimo Recalcati. Per lui non eravamo «vasi vuoti da riempire, ma fiaccole da accendere» (Plutarco). Che poi, a ben vedere, è lo stesso atteggiamento, volutamente provocatorio, che Socrate adotta nei confronti del giovane Agatone nella scena iniziale del Simposio. Su questo terzo punto in particolare potrei portarvi decine di esempi, ma basteranno quattro nomi per darvi un’idea di quello che intendo dire: Eric Berne, Umberto Eco, Jurij Tynianov, Alan Watts. E vi prego di considerare che stiamo parlando di mezzo secolo fa. E che eravamo a Udine, non a New York. Storicamente ci trovavamo cioè soltanto alla vigilia di quella feconda stagione di rinnovamento nelle idee e nelle pratiche pedagogiche che furono il ’68 e, in seguito, ma in modi e con conseguenze diversi, il ’77.
Tra il 1966 e il 1968 Menon ci parlò a lungo, sollecitandoci a leggerli, dei seguenti libri, libri che appartengono alla famiglia dei libri capaci di fare esistere mondi nuovi, impensati, sconosciuti:
1) A che gioco giochiamo (prima edizione Bompiani 16 febbraio 1967), il testo allora più innovativo nel settore della psicologia dei gruppi scritto dal canadese Eric Berne (1910-1970), padre fondatore dell’analisi transazionale e della psicoterapia sistemico-relazionale (quello, per intenderci, del celebre THBFDP: Ti ho beccato figlio di puttana);
2) Opera aperta, il rivoluzionario e ‘provocatorio’ saggio teorico di Umberto Eco che all’inizio degli anni ’60 dell’altro secolo segnò in Italia uno spartiacque fondamentale nell’approccio critico-interpretativo all’opera d’arte (seconda edizione italiana Bompiani aprile 1967);
3) Il problema del linguaggio poetico di Jurji N. Tynjanov (1894-1943), filologo, teorico della letteratura e scrittore russo, uno dei più influenti critici formalisti insieme ai sodali Viktor B. Šklovskij e di Roman Jakobson (prima edizione italiana Il Saggiatore, maggio 1968).
4) L’ultimo esempio che vi propongo ha bisogno di una lunga illustrazione che spero non vi annoi. Esattamente due anni fa, in questo periodo, uscì nelle sale italiane un film di Spike Jonze dal titolo Her (Lei) che forse qualcuno di voi ricorda. Il film è ambientato in un futuro vicinissimo, in un mondo che sta dietro l’angolo e che per certi aspetti è già tra noi. Theodore, uomo solo e introverso, di professione scrive accorate lettere per conto di altri, dettandole al computer. Infelice per il divorzio dalla moglie, Theo nel tempo libero cerca di distrarsi frequentando chat telefoniche. Attratto da uno spot pubblicitario, decide di acquistare un nuovo sistema operativo, basato su un'intelligenza artificiale in grado di evolvere, adattandosi alle esigenze dell'utente. Durante l'installazione sceglie una voce di interfaccia femminile e il sistema si dà autonomamente il nome di «Samantha». Fra Theodore e Samantha si instaura un legame sempre più forte e intenso; lui si apre e si confida con lei , e l’intimità si spinge così avanti che lui si innamora di Samantha e arriva perfino a fare (virtualmente) all’amore con lei. Turbato dall’andazzo che ha preso quella strana ‘relazione’, Theodore sente il bisogno di riflettere e si rifugia in un isolato cottage di legno immerso in un bosco innevato sulle montagne. Lì viene ‘inseguito e raggiunto’ telefonicamente da Samantha la quale a un certo punto lo mette in comunicazione con un professore universitario con il quale da tempo ha una ‘relazione’ on line: Alan Watts. A questo punto del film, ho fatto un salto sulla poltrona. Mia moglie, stupita, mi chiede che succede e io le rispondo: «Ma io so chi è Alan Watts!». Quanti due anni fa, a Udine, tra coloro che hanno visto il film di Jonze, sapevano o ricordavano chi era Alan Watts? Non vorrei esagerare, ma erano sicuramente pochi, molto pochi: per trovarne qualcuno bisogna probabilmente cercare tra gli studiosi di filosofie orientali oppure… tra gli ex allievi di Gian Giacomo Menon! Il filosofo inglese Alan W. Watts (1915-1973), specialista di buddhismo, zen, taoismo e induismo, ha scritto un’opera considerata ancora oggi fondamentale sullo Zen che Menon ci consigliava caldamente di leggere (l’esemplare in mio possesso - seconda edizione Bompiani, 1959 , con postfazione di Umberto Eco – porta la data d’ingresso del settembre 1967 quando stavo per cominciare la terza liceo. E il libro me lo son dovuto far spedire contrassegno direttamente dalla casa editrice perché neppure «Tarantola», la più fornita e specializzata libreria cittadina, ne aveva una copia!).


CONFRONTARSI CON L'ECCELLENZA
Chi ha avuto Menon come insegnante ha avuto una fortuna, quella di trovarsi a contatto con il riverbero di una mente sopraffina e di alto livello. Tutti noi abbiamo sperimentato direttamente la ‘minaccia’ che tale contatto costituiva, ne siamo stati in qualche modo ‘infettati’ perché è noto che l’eccellenza può dimostrarsi spesso brutale e che confrontarsi con essa è un agòn, un pòlemos. A scuola come nella vita. Dopo quel contatto, però, molti di noi non hanno più potuto dimenticare né quella luminosità né quel riverbero né quella ‘minaccia’. Forse sono inattivi e silenti quei germi, quegli agenti dell’infezione, ma sono sempre lì, in agguato, annidati in noi e pronti a balzar fuori.
E molti di noi ex allievi ancora oggi sono fieri di essere ‘sopravvissuti’ alle sue lezioni. Quando sei stato esposto a quel virus – anche Menon ci trasmetteva quella contagiosa ‘malattia’ che Melanie Klein ha chiamato epistemofilia -, non importa quanto a lungo, te ne rimarrà sempre un riverbero, uno stigma. Per il resto della tua carriera e della tua vita privata, magari del tutto normali, magari banali e prive di distinzione, avrai sempre, come avverte George Steiner, «una protezione contro il vuoto». Considero un privilegio l’essere stato uno dei suoi allievi. E consapevole di quello che mi ha dato, del debito che ho nei suoi confronti, a ognuno dei miei tre figli, quando hanno fatto il loro ingresso alle superiori (quella fase che corrisponde probabilmente alla più importante, formativa e magica stagione della vita), ho augurato soprattutto una cosa: di avere nella loro vita scolastica almeno un insegnante, fosse pure uno solo, come la Giulia Terzaghi di Massimo Recalcati, il John Keating dell’Attimo fuggente o il professor Menon della sezione A dello Stellini.
Come il vecchio Dencombe di quello stupendo racconto di Henry James che è Mezza età, anche Menon«ha fatto vibrare qualcuno» che è la cosa che più conta quando tiri le somme della tua vita. Oh, sì, Menon ci ha fatto vibrare, ne ha fatti vibrare molti: di desiderio di sapere.
«In una classe quanti allievi pensi che debbano seguire con partecipazione le mie lezioni perché io mi ritenga soddisfatto?», mi chiese una volta. «Mah, non so – risposi -, la metà, un terzo…». «Uno, me ne basta uno per classe!», rispose. Anche ai veri cabalisti e a certi maestri eremiti era concesso un solo discepolo; Nietzsche ebbe un unico allievo.
I dialoghi platonici, le Lettere di Seneca a Lucilio, la scuola di Tagore sono lì a dimostrare che non è importante soltanto che cosa si insegna, ma anche come si insegna.
Lo sanno bene gli insegnanti e lo sappiamo anche noi che insegnanti non siamo, che si può insegnare in tanti modi, ma che l’unico modo per insegnare con grandezza e lasciando un segno davvero duraturo è suscitare dubbi e domande negli allievi, aprire e far ‘sorgere’ per loro mondi nuovi, inattesi, sconosciuti, inaspettati, allenarli al dissenso, prepararli al distacco: «Ora lasciatemi», ordina Zarathustra; Empedocle prega il suo discepolo di lasciarlo solo sul ciglio del cratere.

POSTREMA LECTIO
Un maestro di valore alla fine deve, dovrebbe rimanere solo. Menon alla fine rimase solo anche se avrebbe voluto un braccio al quale appoggiarsi, una piccola mano da stringere, un cuore di cui ascoltare il palpito, qualcuno da cui trarre un po’ di calore. Perché, vedete, lui sulla soglia dei 90 anni era ancora capace di farsi accendere e devastare dalle cose dell’amore. In una poesia del giugno-agosto 1997 c’è un verso che parla dei: «(…) nini morti d’amore (…)» [Menon era chiamato Nino in famiglia]. Lui, che la tragica solitudine dell’essere umano, in precedenza l’aveva sempre teorizzata e perfino rivendicata con cinica spavalderia intellettuale, soltanto ora ne sperimenta davvero gli effetti sulla propria pelle, sente il cocente rammarico di aver avuto/voluto «una vita non vissuta», solo ora assume la piena e dolorosa consapevolezza che fin lì dov’è arrivato nessuno, nessuno lo ha accompagnato, che i giochi sono ormai fatti e non si può più tornare indietro. E allora che fa? Si butta in quello scrivere «matto e disperatissimo», si stordisce con la scrittura per ottundere il dolore, per tentare – vanamente – di allontanare da sé l’ombra della fine, il fantasma della Vecchia Mietitrice che gli alita sul collo. Specularmente a Katherine Mansfield che non voleva morire per poter scrivere ancora e ancora, Menon scriveva ancora e ancora per non morire. Che altro poteva fare? «Tu dici – scrive nell’agosto 1996 rivolgendosi alla donna che è stata l’amore degli ultimi vent’anni – che mi stanco a scrivere, e che cosa dovrei fare in tutte queste vuote ore di solitudine?».
E ora mi piace pensare che quel verso, quei «nini morti d’amore», sia un po’ come l’ultima lezione del professore-poeta, l’esortazione finale e conclusiva rivolta a ognuno di noi a non mandare mai in pensione, finché abbiamo un alito di vita, i sentimenti, le emozioni, la capacità di appassionarci e di innamorarci.

Il Talmud, uno dei testi classici dell’ebraismo, dice che nella vita dovremmo fare almeno due cose a nostro favore: la prima è trovarci un maestro, la seconda trovarci un amico. Io che vi parlo, nell’adolescenza e nella prima giovinezza ho trovato entrambi e ho voluto, sia pure con imperdonabile e irrimediabile ritardo, rendere loro onore: al primo curando la pubblicazione di due libri di inediti, al secondo dedicandogli uno dei due volumi.

La scrittrice statunitense Dorothy Parker ha scritto che «per conservare qualcosa, bisogna averne cura». Io, con Menon, ho cercato di farlo per quanto mi hanno consentito le mie deboli, inadeguate e periferiche forze.

CESARE SARTORI
(con la collaborazione e il contributo di GIULIANO ABATE e GABRIELLA BURBA)

(1) Chi ha letto almeno "Danny l’eletto" e "La scelta di Reuven" (entrambi Garzanti editore) di quel grande romanziere americano che è stato Chaim Potok (1929-2002), sa di che cosa sto parlando; a chi ancora non li conosce suggerisco di affrettarsi a farlo: sono due tra i più belli e avvincenti romanzi di formazione (Bildungsroman) della letteratura mondiale del ‘900.
(2) A proposito di maestri, George Steiner scrive in quel grande libro che è "La lezione dei maestri" (Grazanti, Milano, 2004, p. 171): «Libido sciendi, desiderio sfrenato per il sapere, brama per il comprendere: è il motto inciso negli uomini e nelle donne migliori. Tale è pure la vocazione del maestro. Non esiste una professione di maggior privilegio. Risvegliare in un altro essere umano forze e sogni superiori alle proprie; indurre in altri l’amore per quello che amiamo: è una avventura senza pari. Quando si allarga, la famiglia dei propri studenti somiglia al ramificarsi, al rinverdirsi di un tronco che sta a sua volta invecchiando (io ho studenti in 5 continenti). È una soddisfazione incomparabile quella di essere il servitore, il corriere dell’essenziale, anche sapendo perfettamente quanto pochi, pochissimi, possano essere i creatori e gli scopritori di prim’ordine. Anche a un livello modesto, come quello di maestro di scuola, insegnare, e insegnare bene, significa essere complici di possibilità trascendenti. Una volta risvegliato, quel bambino esasperante nell’ultima fila potrà scrivere pagine o concepire teoremi che terranno impegnati per secoli. (…) Laddove uomini e donne si affannano, scalzi, a trovare un maestro (…), la forza vitale dello spirito è salvaguardata. Abbiamo visto che il magistero è fallibile, che gelosia, vanità, falsità e tradimento si intromettono quasi inevitabilmente. Ma quelle speranze sempre rinnovate, l’imperfetta meraviglia della cosa, ci conducono alla dignitas della persona umana, al suo approdo alla parte migliore di sé. Nessun mezzo meccanico per quanto rapido, nessun materialismo per quanto trionfante, possono cancellare il nuovo giorno che viviamo quando abbiamo compreso un maestro. Quella gioia non allevia certo la morte. Ma ci rende furiosi per il suo spreco. C’è tempo per un’altra lezione?».

Cesare Sartori

Gian Giacomo Menon nacque nel 1910 a Medea (Gorizia), allora territorio austriaco. Dal 1937 all’anno della morte (2000) ha vissuto e insegnato a Udine.
Pensiero individualista, solipsista, pragmatista, sostenitore della isostenia dei logoi, definiva così i suoi «segnali di vita»: casualità, nudità, paura.

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