Intervento per «FilosofiaGrado»

Buonasera e grazie per essere qui. Mi presento: sono Cesare Sartori, uno dei tanti friulani della diaspora nonché rappresentante di quella «congrega di fissati», peraltro piuttosto esigua, che qualche tempo fa si è proposta di sottrarre all’oblio la figura di Gian Giacomo Menon, il protagonista di questa serata, e di valorizzarne la sterminata opera poetica.
Innanzitutto ringrazio subito per l’invito il direttore scientifico della manifestazione professor Raoul Kirchmayr e la mia cara compagna di scuola Gabriella Burba alla quale si deve l’idea iniziale di portare Menon a «FilosofiaGrado» e che, come me, è stata per tre anni, dal 1965 al 1968, allieva di Menon al liceo classico Stellini di Udine.

Dovendo parlare di uno sconosciuto, e misconosciuto, come è Menon, è intanto necessario fornire su di lui una sia pur sintetica scheda biografica.
Nato nel 1910 a Medea, allora ancora in territorio austro-ungarico, Menon frequentò il liceo classico a Gorizia (eccelleva in greco) dove ebbe tra i suoi insegnanti Ervino Pocar ed Enrico Mreule. Aderì entusiasta al movimento futurista ed ebbe come compagno e sodale l’aeropittore Tullio Crali. Prima laurea in giurisprudenza a Bologna nel 1934, seguita tre anni dopo da una seconda in filosofia. Dal ’37 la famiglia si trasferì a Udine città nel cui liceo classico, lo Stellini, Nino (come Gian Giacomo veniva chiamato da famigliari e amici) ha insegnato storia e filosofia per 30 anni di fila dal 1939-’40 al 1968, per poi nel 1977 concludere la carriera di docente alle magistrali Percoto della stessa città. Ha avuto come amico l’antropologo Carlo Tullio Altan.
Per sua stessa ammissione, dagli 11 anni in poi fino a poche settimane prima di morire a 90 anni nel 2000, Menon ha scritto oltre 100mila poesie, molto più di un milione di versi, oltre 14mila soltanto negli ultimi 10 anni di vita. Una produzione abnorme per dimensioni fisiche e invenzione verbale. Ma non ha pubblicato praticamente nulla, lo 0,2% di quanto è venuto foglio dopo foglio componendo: il nottivago, un libricino di versi a 20 anni durante il periodo futurista (il titolo è una citazione dal 1° frammento di Eraclito: ai nottivaghi ai maghi posseduti da Dioniso alle menadi agli iniziati), 17 poesie ospitate nell’agosto 1966 dalla «Fiera Letteraria» e una raccolta di 111 poesie – I binari del gallo - uscita nel 1998 per i tipi di Campanotto.
Nel 1957, per motivi che restano tutt’ora ufficialmente ignoti ma che, ne sono ormai certo, riguardavano la sfera più intima e privata, Menon, che prima di allora aveva avuto una brillante vita culturale e mondana frequentando circoli, salotti, feste e veglioni, prende l’amara decisione di assentarsi dal mondo, fa perdere le proprie tracce in società: si chiude in casa da cui ne esce soltanto per andare a insegnare al liceo («Per me andare a scuola a insegnare era una festa», confessa in un appunto quando ha già più di 80 anni) o per inseguire i suoi giovani amori. Per il resto del tempo, scrive versi.

La poesia è l’unica vera amante a cui è stato fedele per tutta la vita; per lui la poesia fu un’ossessione di tipo erotico, una necessità vitale. Come per Jiří Orten, anche per Menon scrivere poesia fu come respirare: argine contro l’assurdità della vita, ricerca dell’essenza dell’uomo nell’impenetrabile nulla che lo avvolge, ma anche barlume di speranza prima o poi spento. «Solo questo è il mio mondo – ha scritto il poeta ebreo di lingua ceca dal tragico destino -, la mia speranza, la mia fede: scrivere, scrivere fino al termine estremo». Menon avrebbe potuto sottoscrivere queste parole. Loro due lo sapevano bene che non sarebbe cambiato nulla e che non c’era, non c’è scampo, «ciò nonostante bisogna aderire al proprio destino, guizzare nell’inestricabile assurdo, trovando salvezza in sé stessi, dare un senso a ciò che è più disperato. Bisogna caparbiamente compiersi fino in fondo, essere, prima che vengano a prenderti».

Menon aveva una solidissima formazione classica e umanistica come era normale a quei tempi. Dal punto di vista filosofico la sua concezione del mondo era sicuramente debitrice di Epicuro (che in un appunto del 1997 definisce, non si sa con quanta icastica autoironia, «scozzonatore di vergini») e in particolare del suo monito: «Λάθε βιώσας, vivi nascosto»; ma poi anche di Epitteto, di Gorgia e Protagora, dei sofisti e degli stoici, degli scettici e dei neo-pirroniani (con particolare riferimento al concetto di ἐποχή), e ancora di Pascal, Schopenhauer, Leopardi, Ortega y Gasset e di Carlo Michelstaedter (del quale ha sempre parlato a lungo e con insistenza ai suoi allievi). In un appunto dell’agosto 1996 scrive: «Io non ho avuto idoli, forse due: Rensi e Baudelaire e forse Rimbaud». Ma in un’annotazione successiva dell’aprile-maggio ’97 rivendica orgogliosamente: «Non mi occorrono maestri, io ho quello che mi occorre. Ogni uomo è sé, nessun paragone fra uomini, solitudine essenziale», ma nel luglio 1996 aveva ammesso che «l’uomo, il maestro, il poeta ha bisogno di consensi, di accettazione». È sicuramente Giuseppe Rensi, filosofo solitario e inattuale per eccellenza, il pensatore che sembra aver più profondamente influenzato il nostro poeta: basti pensare alla «isostenia dei logoi», da Menon costantemente predicata, oppure alla concezione rensiana della storia come caso e ripetizione o a quella dell’uomo come inerme e nuda preda del caso e della paura, concetti che Menon aveva interiorizzato e fatto propri e che continuamente ci ripeteva in aula. In un appunto manoscritto dell’ottobre 1997 scrive: «Il caso, sì il caso, nessuna legge né di natura né di spirito, né bassa né alta». Nel novembre 1995 elenca i capisaldi del suo pensiero, il suo identikit esistenziale: «Soggettività spinta, dubbio sistematico, isostenia, fede oscillante, paura, viltà, epoché». Una forte influenza su di lui ha sicuramente esercitato Nietzsche (con la sua convinzione dell’impossibilità di raggiungere la verità), anche riguardo alla fede e alla religione: Menon, infatti, nelle sue «note marginali dello sconforto» e nelle sintetiche autobiografie che ha periodicamente continuato a scrivere fino all’ultimo anno di vita preoccupato di lasciare di sé una identità esatta e, per così dire, autocertificata, non si dimentica mai di ribadire e sottolineare l’aria contadina e cristiana respirata nell’infanzia. Nei versi scritti negli ultimi dieci anni di vita, il poeta spesso nomina e invoca Dio e soprattutto il Cristo, quest’ultimo, forse, di nuovo in senso nicciano come l’unico vero cristiano contrapposto alla Chiesa e al Cristianesimo. E poi ancora, per motivi e con influenze diverse, Menon si rifà a Heidegger (per anni ha continuato ad adottare come lettura da portare all’esame di Stato Was ist Metaphysik?), al neopositivismo logico della Scuola di Vienna, alla filosofia del linguaggio e a Wittgenstein (io sono il mio mondo; i limiti del mio linguaggio sono i limiti del mio mondo; su ciò, di cui non si può parlare, si deve tacere).

Ma prima di entrare nel merito del tema, è opportuno riferire in breve come siamo arrivati fino qui. Il libro di inediti poetici che viene presentato stasera è un canzoniere d’amore, 103 componimenti che Menon scrisse in un brevissimo arco di tempo: 1 mese, l’agosto 1968, ai quali abbiamo aggiunto le 5 lettere che l’autore spedì alla destinataria-ispiratrice dei versi nonché 7 poesie composte poco più di un anno dopo e dedicate alla stessa giovane donna. Un anno e mezzo fa è stata lei, una ex allieva del professore, a mettere tutto questo materiale a disposizione per la pubblicazione. In seguito, il ritrovamento nella casa di Menon di 25 pacchi di manoscritti e dattiloscritti con migliaia di poesie inedite nonché di centinaia di appunti, pensieri, riflessioni del poeta – tutto materiale riferibile al decennio 1990-1998 – ai quali si sono aggiunti via via altri copiosi materiali inediti precedenti o addirittura successivi al ‘98, ci ha convinti della necessità di costituire un apposito fondo Menon alla biblioteca Joppi di Udine. Infine i 4 nipoti di Menon e alcuni ex allievi hanno istituito una borsa di studio post lauream per il riordino e la catalogazione di tutte queste carte.
La ricerca di un editore non è stata impresa facile, ma per fortuna nel mondo dell’editoria ci sono ancora editori veri, galantuomini come Nino Aragno che quando credono in un progetto non si fanno facilmente smontare dall’inflessibile e cieca partita doppia del dare e dell’avere. Aragno è un editore, di qualità e livello nazionali, che canta fuori del coro, uno che, come è stato scritto di lui, «prova piacere dinanzi alle imprese impossibili».

Gli organizzatori, invitandoci a parlare di Menon, ci hanno assegnato un tema arduo e impegnativo: Padri atipici ed eredità poetiche. Io mi sono scelto la prima parte della traccia e sulle eredità poetiche farò soltanto una breve considerazione: è il professor Pellegrini quello competente e qualificato a trattarne. Anche lui però non avrà compito facile: come può esserci infatti eredità poetica di uno sconosciuto che non ha pubblicato praticamente niente e quel poco che ha pubblicato è passato nell’indifferenza, nel silenzio, del disinteresse generali? Come fanno, coloro che potrebbero essere i destinatari dell’eredità, a rivendicarla se non sanno che c’è un lascito così cospicuo da reclamare? Ora però c’è questo canzoniere d’amore e soprattutto, tra qualche settimana, un volume molto più consistente, ricco e documentato che uscirà per i tipi di KappaVu di Udine con una biografia del poeta finalmente fatta come si deve, un ampio saggio critico scritto da Rienzo Pellegrini, un’antologia che copre tutto l’arco della produzione di Menon nonché in allegato un cd musicale con l’esecuzione degli spartiti che 7 musicisti hanno composto per lui: va ricordato infatti che tra il 1971 e il 2012 ben 10 compositori hanno scritto musiche ispirandosi ai suoi versi: non male per uno che non ha pubblicato quasi niente, no? Beh, credo che ora sarà più difficile ignorare il poeta di Medea. Menon, come capita a volte ai poeti, è giunto inaspettato e all’improvviso alle nostre porte come i viandanti nel più gelido degli inverni o nelle più torride estati. Varrà la pena di aprirgli fiduciosamente la porta? Io credo di sì.

Per quanto riguarda invece i «padri atipici», vi confessavo prima la mia difficoltà nell’affrontare l’argomento. Soprattutto perché, fra i dicta più celebri e ricorrenti del professore: quelle massime di vita, ammonimenti perentori, precetti ed esortazioni che ci impartiva quotidianamente in classe – pensate con la vostra testa, non intruppatevi nel gregge, imparate a conoscere voi stessi, eccetera -, Menon si scagliava con monotona ma convinta insistenza contro quello che definiva «l’inganno della specie» cioè la procreazione, anzi la «riproduzione» come definiva sprezzantemente paternità e maternità («Che schifo - esclamava disgustato - vedere le mie ex allieve che spingono una carrozzina!»). Quindi, come si fa a parlare di paternità a proposito di uno che la negava violentemente?
Mentre tentavo di escogitare una via d’uscita onorevole, mi si è offerto casualmente un buon aggancio che ho subito preso al volo: l’unica volta che Dante utilizza il superlativo assoluto dell’aggettivo «dolce» lo fa appellando «dolcissimo patre» (Purg., XXX, 50) quel Virgilio, da lui considerato il suo maestro, che aveva eletto a sua guida nell’epico viaggio agli inferi. Ho poi considerato che lo stesso aggettivo, «atipici», induce e incoraggia a un uso estensivo e traslato del lemma, per cui mi sono sentito autorizzato a costruire il mio intervento proponendo un parallelismo, un collegamento stretto, e in parte anche una sovrapposizione tra la figura del padre e quella dell’insegnante. Ruoli comunque entrambi che condividono almeno due concetti-chiave: autorevolezza e responsabilità.
Avevo però bisogno anche di appoggiarmi a un più solido bastone, e quello più autorevole sul tema del rapporto docente-allievo mi è sembrato il George Steiner dell’autobiografia e delle Lessons of the Masters (La lezione dei maestri). Naturalmente, prendendo Steiner come canone, dovrò fare paragoni e confronti che a più d’uno sembreranno irriverenti, inappropriati o esagerati se riferiti al piccolo uomo di Medea. Qualcuno potrebbe addirittura gridare al sacrilegio. Beh, avendoci a suo tempo autorizzati a paragonare le piccole alle grandi cose (Georgiche, 4, 176), mi salverò appellandomi di nuovo a Virgilio.

Che tipo di insegnante è stato Menon? Difficile rispondere. Se fate un sondaggio tra i miei compagni della III A dell’anno scolastico 1967-’68, anche oggi a oltre 40 anni di distanza, ne ricaverete risposte diverse e contraddittorie: ci fu chi sentì il bisogno di prendere lezioni private di filosofia in vista della maturità perché pensava di essere impreparato nella materia (eppure, oltre 40 anni dopo, uno dei miei figli ha studiato con profitto sui miei appunti di filosofia presi durante le lezioni di Menon) e chi al contrario da lui si vide in qualche modo segnata o tracciata la vita futura. Di certo una cosa è sicura: alle sue lezioni non ci si annoiava.
Quando un paio di anni fa ci siamo riuniti a Udine per una cena, una quindicina di noi della III A di allora, come succede in questi casi è subito partita la rincorsa dei ricordi, condita con gli immancabili aneddoti, su quelli che eravamo allora, sui compagni incontrati e persi per strada ma soprattutto sui professori che abbiamo avuto nei 5 anni del liceo. E se molti di questi ultimi sono a loro modo indimenticabili (qualcuno anche in senso negativo): Lucia Pezzali, Luisa Romano, don Rossitti, Daniele Comei, Silvia Crichiutti, Tarcisio Petracco, Bruno Londero, pre’ Checo Placereani, il tenero Franco Venturini, uno solo tra loro è risultato essere, se così si può dire, il più indimenticabile di tutti: Menon. Quello che ha lasciato segni, orme, tracce, a volte perfino ferite, più profondi e duraturi. Più d’uno degli ex allievi non ha ancora finito di fare i conti con quell’insegnante scomodo, ingombrante, insopportabile e adorabile che è stato Menon. So per conoscenza personale che ci sono tuttora suoi ex allievi ed allieve, di età variabile tra i 55 e i 75 anni, per i quali quel lontano rapporto con il Fatale Professore (è la magistrale definizione che ne ha dato uno di loro) costituisce una dolorosa ferita ancora aperta nel peggiore dei casi o un oscuro grumo rimosso a stento e con fatica nel migliore.
Ora vi leggerò un elenco di definizioni di lui; sono tutte pertinenti e azzeccate ma nessuna in grado da sola di essere esauriente: strambo, eccentrico, beffardo, offensivo, irrispettoso verso tutto e tutti in primis i suoi allievi, stravagante, snob, narciso, crudele, elitario, maschilista all’ennesima potenza, distruttivo, prevaricatore e provocatore, istrione, uno che nel ferirti sembrava provarci gusto, un manipolatore… Menon era famoso a scuola e in città per i suoi atteggiamenti e comportamenti bizzarri, spiazzanti e sconcertanti (come lo starsene rincattucciato in silenzio sotto la cattedra per tutta la durata della lezione, leccarsi ostentamente il gesso dalle dita dopo aver scritto alla lavagna, indossare l’uno sopra l’altro occhiali da vista e da sole, venire in classe in una calda giornata di primavera intabarrato fino alle orecchie nel suo celebre trench e con i guanti di pecari sempre infilati o azionare l’interruttore della luce con un calcio ben piazzato…).
Era quasi impossibile restare indifferenti anche se avveniva più spesso di quanto non ci si immagina: è accertato comunque che in ognuna delle classi in cui ha insegnato – gli sono passate tra le mani due generazioni di studenti friulani – Menon ha suscitato grandi «innamoramenti» e «passioni» (con e senza le virgolette; io sono un esempio con le virgolette!) - soprattutto sembrava esercitare un particolare ascendente sulle giovani allieve – ma provocava anche altrettanto veementi ripulse, irritazioni, rifiuti, risentimenti. E accanto a queste due c’è sempre stata anche un’inspiegabile (per me, inspiegabile) ma ampia zona grigia di indifferenti. Ma anche gli atteggiamenti nei confronti di Socrate coprirono ogni sfumatura: dall’adorazione all’odio assassino (l’odio che è il lato oscuro dell’amore).
È comunque assolutamente certo che Menon, come il vecchio Dencombe di un celebre raccionto di Henry James «ha fatto vibrare qualcuno», e che questa, alla fine, è l’unica cosa che conta quando tiri le somme della tua vita.

Se però c’è ancora chi pensa che Menon fosse esagerato nelle sue intemerate, offese, sarcasmi e provocazioni, lo invito a leggersi o rileggersi alcuni passaggi dell’autobiografia di Steiner (capitolo 9), con quegli Imbecille! o Idiota! sibilati sprezzantemente da autorevoli professori di Harward o Yale davanti a tesine ritenute non soddisfacenti o a richieste degli allievi considerate improponibili.
M. ripeteva spesso, e l’ha fatto fino all’ultimo fiato di vita: «Non mi piacete, non mi siete mai piaciuti», un’invettiva rivolta genericamente agli altri, al mondo là fuori: ma anche per Gershom Scholem, il grande filosofo, teologo e semitista ebreo, tutti gli esseri umani, salvo rare eccezioni, erano una delusione.

Ci sono esempi autorevoli: Socrate, Schelling, Wittgenstein, Heidegger, Foucault…, eppure spesso non si bada al fatto che l’insegnante è sempre anche uno showman e che «in ogni docente efficace e carismatico si cela sempre un attore, un professionista più o meno riconosciuto dell’eloquio e del gesto». Menon era quindi in ottima compagnia! Le sue plateali provocazioni, gli istrionismi e le eccentricità ex cathedra si inscrivono in una lunga e autorevole tradizione.
E aveva pure un senso - anche se allora non lo capivamo - quel suo continuo, instancabile insistere, archimedeo o galileiano che dir si voglia, sulla precisione e il rigore, sulla scrupolosità e la cura dei dettagli e di quelle che «sembrano» minuzie: etimologiche, lessicali, filosofiche, ma che in realtà sono particolari (tecnici) che diventano visioni interpretative, grazie ai quali you see a World in a Grain of Sand…
A proposito degli innamoramenti di Menon cui accennavo in precedenza, soprattutto di quelli senza virgolette – e dei quali anche maschietti ingenui e sprovveduti come eravamo noi allora, non potevamo non accorgerci - si è molto spettegolato e chiacchierato in città e a scuola, spesso a vanvera, banalizzando, diffamando, una via di mezzo tra la caccia alle streghe e il politicamente corretto. Ma bisognerà pur decidersi ad affrontarlo l’argomento, no? La faccenda è delicata e scivolosa anche perché, allora come oggi, è difficile non ammettere che «l’erotismo, coperto o dichiarato, fantasticato o messo in atto, è intrecciato intimamente all’insegnamento» e che nell’insegnamento è insito un inevitabile processo di seduzione. Il docente si rivolge alla mente, ma anche al corpo dell’allievo, due sfere inseparabili. E Menon lo era, a tutti gli effetti, un seduttore e un dongiovanni intellettuale. Nel corso dei millenni, nelle società più diverse, la situazione dell’insegnamento ha messo intimamente a contatto uomini e donne maturi con adolescenti e giovani. Socrate trovava appagamento nei ragazzi e nella loro radiosa nudità. È in questo groviglio che la bruttezza fisica può sedurre la bellezza. Non mancano esempi illustri: Alcibiade e Socrate, Cavalieri e Michelangelo… Neppure Menon era un adone: piccolo, tozzo, sdentato, ma la forza di seduzione del maestro non conosce rivali, il canto della sirena si fa irresistibile...
Sempre su questo aspetto, c’è infine (infine?) da ricordare che all’epoca in cui noi abbiamo avuto a che fare con Menon, lui si avvicinava ai 60 anni; per gli standard del tempo (che lui stesso probabilmente condivideva) era considerato un vecchio, un uomo già avviato al tramonto, uno che avverte con dolorosa indignazione di non avere più molto tempo. Alcuni narratori e poeti, consapevoli dell’ineluttabile circostanza, l’hanno descritta in modi caustici ma assai persuasivi. «Per quante cose tu sappia e tu pensi - sostiene David Kepesh, l’Animale morente di Philip Roth - (…) non sei mai al di sopra del sesso. (…) E’ il sesso a sconvolgere le nostre vite, solitamente ordinate. (…) Come fai quando hai 62 anni e l’impulso di afferrare tutto ciò che esiste di afferrabile non potrebbe essere più forte? Come fai, quando hai 62 anni e ti accorgi che tutte quelle parti del corpo che fino ad allora erano invisibili (…) cominciano a rendersi angosciosamente manifeste, mentre l’organo più cospicuo in tutta la tua vita è destinato a ridursi in niente? (…) Il sesso è una rivincita sulla morte». E Yeats, il bardo irlandese, quando cominciò a invecchiare, non dovette forse affrontare lo stesso tormento? «Ti sembra orribile che desiderio sessuale (lust) e furia / Possano attrarmi nella mia vecchiaia; / Non erano tanto assillanti quand’ero giovane; / Che altro mi resta per spronarmi a cantare? (sottolineatura mia)». Se non volete sentirvi ripetere quello che è diventato quasi un luogo comune – l’amore impossibile ma irresistibile del 73enne Goethe, “un vecchio tornato ragazzo”, per la 19enne Ulrike dagli occhi verdazzurri – con un balzo nel lontano Oriente e indietro nel tempo di oltre 5 secoli vi propongo il caso del leggendario monaco buddhista e maestro zen Ikkyū, Nuvola Vagante, che all’età di 76 anni si innamora ricambiato di Mori, la cantante cieca del tempio che ha 46 anni meno di lui. Una passione impetuosa che Ikkyū descrive così nelle sue quartine con entusiasmo quasi adolescenziale: «Noi lo zen lo facciamo nel letto, / stretti stretti come due [anitre] mandarine, / Giocando e tubando / finché la quiete ci discende nel cuore»; «Come canterò i nuovi fuochi / di questa mia luna al tramonto?»; «Come puoi, mano mia uguagliare la mano di Mori / Impareggiabile maestra d’ogni gioco d’amore… / Il mio stelo di giada avvizzito lo fa rifiorire, / meravigliosa compagna di delizie infinite…». Anche il severo e austero maestro zen, cioè, aveva capito, da vecchio, dopo anni di ricerca e di erranza, «che il traguardo del suo cammino, non solo esistenziale ma di uomo dello zen, era lì, dove mai lo avrebbe supposto, tra le braccia di una donna con cui ha potuto davvero spalancare il suo io». Come l’alcova, la poesia è per Ikkyū un richiamo irrinunciabile e irresistibile. Ma le somiglianze e le affinità tra il maestro zen del XV secolo e il poeta di Medea non si fermano certo qui: anche Ikkyū come Menon ha lasciato un immenso (per i tempi) corpus poetico (più di mille quartine), anche la sua incontenibile pulsione creativa fu una passione furiosa e totale; ma, ancor più nel dettaglio, come non stupirsi di certe parole-immagini che ricorrono con uguale significato in entrambi: l’anatra simbolo di fedeltà e affiatamento di coppia, la luna – così spesso ahimé indifferente e sorda al richiamo – simbolo della donna sospirata… Somiglianze e affinità ancor più sorprendenti se si considera che Menon sicuramente non conosceva Ikkyū.

Il rapporto maestro-allievo presenta sempre aspetti rischiosi, a volte sfiora o tocca il tabù, oggi più di ieri, oggi sicuramente più di ieri. Un professore ispirato, un maestro carismatico tengono in pugno lo spirito dei loro allievi, ma «i pericoli e i privilegi sono sconfinati», mette in guardia Steiner. Ogni incursione nell’altro (s)confina con l’erotismo e lo innesca. Una lectio magistralis, un corso, un seminario, perfino una conferenza possono generare un’atmosfera satura di tensioni erotiche. Platone non ci ha forse avvertiti tanto tempo fa che non si apprende se non per via erotica? E allora perché menare tanto scandalo? Un desiderio di compiacere il maestro è evidente nel Simposio come nell’Ultima Cena. Spesso il discepolo è consumato dal desiderio per il suo maestro, pende dalle sue labbra ma ha anche ansia di toccarlo.
Varrà anche la pena poi di chiedersi se la responsabilità stia tutta da una parte sola. Ho il sospetto che sarebbe ingeneroso e probabilmente non vero sostenerlo. Mentre preparavo questo intervento m’è capitata sotto gli occhi una silografia cinquecentesca dove si vede Fillide, la giovane amante che distraeva Alessandro Magno dagli studi filosofici, cavalcare nuda l’ormai anziano Aristotele che le si sottopone anche lui nudo, carponi e con una briglia alla bocca. Eppure, chissà quante volte il filosofo avrà messo in guardia i suoi allievi del Liceo dai rischi dell’akrasìa, della debolezza della volontà rispetto alla virtù? Fillide però desiderava montare uno dei più famosi filosofi dell’Occidente e ci sarebbe riuscita. Per una volta i ruoli si rovesciarono, puqwlla volta fu lei a impartire la lezione.
Oppure viene in mente la ben più celebre foto che ritrae Nietzsche e Paul Rée aggiogati a un carretto e tenuti a bada con un frustino, in puro stile bondage, da quell’algida virago di Lou Andreas Salomè. Quali migliori prove della debolezza della filosofia di fronte al supremo richiamo della carne?
Agostino sosteneva che una teoria della pedagogia fa sempre riferimento all’enigma del libero arbitrio e che quindi alla fine la responsabilità è sempre individuale; è altrettanto certo tuttavia che l’insegnamento è un’attività estremamente pericolosa per entrambe le parti in scena. Quel maestro reale che ti sta davanti prende nelle sue mani quella che è la parte più intima dei suoi allievi, quella che Steiner con una splendida immagine definisce «la materia fragile e incandescente della loro possibilità».
Andrà pure precisato che le relazioni di Menon non erano affatto, come qualcuno maliziosamente continua a sospettare, come dire?, monotematiche né a senso unico, bensì di varia e molteplice natura, anche se si può tranquillamente convenire sulla loro pericolosità. Dangereuses quelle liaisons lo erano per tutti gli attori sulla scena: per le giovani donne coinvolte, ma di certo anche per il nostro attempato professore.
Eppure, nonostante tutti i rischi e i pericoli, immaginari/immaginati o tradotti in realtà, nonostante tutti i suoi difetti, Menon resta indimenticabile. Come diavolo è possibile?
Io me lo spiego così: aveva alcuni doni che riversava intorno a sé. Intanto il carisma che è quell’attributo, come il coraggio di don Abbondio, che se non ce l’hai, non te lo puoi dare. Poi aveva il λόγος: questa polisemica parola greca che vuol dire tante cose: parola, discorso, intelligenza; ragione universale e pensiero divino secondo Eraclito, ragione generatrice che conferisce ordine e vita a tutte le cose per gli stoici, quel qualcosa che contiene in sé il bello, il buono e il giusto stando a Plotino… Terzo, Menon fu un impareggiabile pontifex, letteralmente un facitore, un costruttore di ponti tra culture e discipline diverse, ponti verso il mondo per sfuggire alle ristrettezze culturali e mentali della piccola provincia udinese.
Chi ha avuto Menon come insegnante ha avuto una fortuna, quella di trovarsi a contatto con il riverbero di una mente sopraffina e di alto livello. Tutti noi - anche i renitenti e i contrari e oserei dire perfino gli indifferenti - abbiamo sperimentato direttamente la minaccia che tale contatto costituiva, ne siamo stati in qualche modo infettati. Dopo quel contatto, molti di noi non hanno più potuto dimenticare né quella luminosità né quel riverbero né quella minaccia. Forse sono inattivi e silenti quei germi, quegli agenti dell’infezione, ma sono sempre lì, in agguato, annidati dentro di noi e pronti a balzar fuori. L’eccellenza può dimostrarsi spesso brutale, confrontarsi con essa è un agòn, un pòlemos. A scuola come nella vita.
Ma qualcuno di noi, anche se allora lo capivamo poco e male o punto, ancora oggi è fiero di essere “sopravvissuto” alle sue lezioni. Quando sei stato esposto a quel virus, non importa quanto a lungo, te ne rimarrà sempre un riverbero, uno stigma. Per il resto della tua carriera e della tua vita privata, magari del tutto normali, magari banali e prive di distinzione, avrai, come avverte Steiner, «una protezione contro il vuoto». Considero un privilegio l’essere stato uno dei suoi allievi, anche se non ero tra i migliori e più distinti. E consapevole di quello che mi ha dato, del debito che ho nei suoi confronti, a ognuno dei miei tre figli, quando hanno fatto il loro ingresso alle superiori (quella fase che corrisponde probabilmente alla più importante e magica stagione della vita), ho augurato soprattutto una cosa: di avere nella loro vita scolastica almeno un insegnante, fosse pure uno solo, come Menon. Oggi però considero una fortuna anche l’essere riuscito a sottrarmi in tempo alla sua avvolgente e manipolatrice influenza, per altro così stimolante e seduttiva. «Guardatevi dal grande insegnante», ammoniva Agostino che aveva un certo fiuto per le seduzioni. All’epoca c’era troppo squilibrio tra noi e tutto o quasi giocava a mio sfavore. E poi, immediatamente dopo il liceo, vennero il Maggio e la stagione dei movimenti, l’autunno caldo, le stragi, l’impegno politico: non c’era tempo né per la poesia né per Menon.
Menon, come dicevo all’inizio, sosteneva non solo l’assurdità dell’esistenza dell’uomo ma anche l’irrimediabile e inemendabile solitudine dell’essere umano («Ognuno sta solo sul cuor della terra…»). Eppure questo sacerdote della solitudine anelava al dialogo, aveva sete di dialogo e «di rischi condivisi, fisici e intellettuali, con i suoi allievi»; cercava a modo suo di condividere almeno con qualcuno di noi la sua libido sciendi, la sua sete e amore di conoscenza. E’ vero che senza solitudine non c’è visione e che il poeta, l’artista devono drammaticamente scegliere tra la perfezione della vita e quella dell’opera, ma è anche vero che senza un pubblico, sia pure ristretto, sia pure ridotto all’unità, nessuna verità può essere rivelata. «In una classe quanti allievi pensi che debbano seguire con partecipazione le mie lezioni perché io mi ritenga soddisfatto?», mi chiese una volta. «Mah, non so – risposi -, la metà, un terzo…». «Uno, me ne basta uno per classe!», rispose. Anche ai veri cabalisti e a certi maestri eremiti era concesso un solo discepolo; Nietzsche ebbe un unico allievo.
Lo sanno bene gli insegnanti e lo sappiamo anche noi che insegnanti non siamo, che si può insegnare in tanti modi, ma che l’unico modo per insegnare con grandezza e lasciando un segno davvero duraturo è suscitare dubbi e domande negli allievi, allenarli al dissenso, prepararli al distacco: «Ora lasciatemi», ordina Zarathustra; Empedocle prega il suo discepolo di lasciarlo solo sul ciglio del cratere. Un maestro di valore alla fine deve, dovrebbe rimanere solo. Menon alla fine rimase solo.
Come ha scritto il mio amico e compagno Giuliano nel corso di uno scambio di messaggi riguardanti il nostro professore: «E’ impossibile parlare di Menon facendo astrazione dalla storia del proprio rapporto con lui. Per forza di cose, per noi che lo abbiamo avuto vicino e che abbiamo goduto della sua presenza nelle aule e nei corridoi dello Stellini, vuol dire continuare a riflettere e a ricostruire i passaggi più autentici della nostra crescita e maturazione (le sottolineature sono mie!)».
Questa però, e concludo, è solo la mia personale versione dei fatti; non pretendo che sia quella autentica e probabilmente ce ne sono altre più plausibili o attendibili.
Ma, con Menon, non posso fare altro che dichiarare: «Qui per me ora blu».

Cesare Sartori

Gian Giacomo Menon nacque nel 1910 a Medea (Gorizia), allora territorio austriaco. Dal 1937 all’anno della morte (2000) ha vissuto e insegnato a Udine.
Pensiero individualista, solipsista, pragmatista, sostenitore della isostenia dei logoi, definiva così i suoi «segnali di vita»: casualità, nudità, paura.

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