Intervento per la «Fiera delle parole»

Buon pomeriggio e grazie per essere qui. Mi presento: sono Cesare Sartori, uno dei tanti friulani della diaspora nonché rappresentante di quella «congrega di fissati», peraltro piuttosto esigua, che qualche tempo fa si è proposta di sottrarre all’oblio la figura di Gian Giacomo Menon, il protagonista di questo incontro, e di valorizzarne la sterminata opera poetica.
Innanzitutto ringrazio subito per l’invito Bruna Coscia e l’associazione culturale «Cuore di Carta» nonché Irmarosa Tomasini, che ha interposto i suoi buoni uffici affinché io potessi essere qui oggi e che come me, sia pure in periodi diversi, è stata allieva del professor Menon al liceo classico Stellini di Udine.

Dovendo parlare di uno sconosciuto, e misconosciuto, come è Menon, è intanto necessario fornire su di lui una sia pur sintetica scheda biografica.
Nato nel 1910 a Medea, allora ancora in territorio austro-ungarico, Menon frequentò il liceo classico a Gorizia (eccelleva in greco) dove ebbe tra i suoi insegnanti Ervino Pocar ed Enrico Mreule. Aderì entusiasta al movimento futurista ed ebbe come compagno e sodale l’aeropittore Tullio Crali. Prima laurea in giurisprudenza a Bologna nel 1934, seguita tre anni dopo da una seconda in filosofia. Dal ’37 la famiglia si trasferì a Udine città nel cui liceo classico, lo Stellini, Nino (come Gian Giacomo veniva chiamato da famigliari e amici) ha insegnato storia e filosofia per 30 anni di fila dal 1939-’40 al 1968, per poi nel 1977 concludere la carriera di docente alle magistrali Percoto della stessa città. Ha avuto come amico l’antropologo Carlo Tullio Altan.
Per sua stessa ammissione, dagli 11 anni in poi fino a poche settimane prima di morire a 90 anni nel 2000, Menon ha scritto oltre 100mila poesie, molto più di un milione di versi, oltre 14mila soltanto negli ultimi 10 anni di vita. Una produzione abnorme per dimensioni fisiche e invenzione verbale. Ma non ha pubblicato praticamente nulla, lo 0,2% di quanto è venuto foglio dopo foglio componendo e cioè: un libricino pubblicato a 20 anni, durante il suo periodo futurista, il nottivago (il titolo è una citazione dal primo frammento di Eraclito: ai nottivaghi ai maghi posseduti da Dioniso alle menadi agli iniziati; ma non escludo che possa essere un riferimento al Canto del nottambulo che compare nell’Also sprach Zarathustra di Nietzsche), poi 17 poesie ospitate nell’agosto 1966 dalla «Fiera Letteraria» e infine una raccolta di 111 poesie – I binari del gallo - uscita nel 1998 per i tipi di Campanotto di Udine.
Nel 1957, per motivi che restano tutt’ora ufficialmente ignoti ma che, ormai l’ho accertato, riguardavano la sfera più intima e privata, Menon, che prima di allora aveva avuto una brillante vita culturale e mondana frequentando circoli, salotti, feste e veglioni, prende l’amara decisione (l’aggettivo qualificativo è suo) di assentarsi dal mondo, fa perdere le proprie tracce in società (anche se persiste in me il sospetto, in questa sua condotta di vita, di un che di artificioso e compiaciuto): si chiude in casa da cui ne esce soltanto per andare a insegnare al liceo («Per me andare a scuola a insegnare era una festa», confessa in un appunto quando ha già più di 80 anni) o per inseguire i suoi giovani amori. Per il resto del tempo, scrive versi. Di ermetico, enigmatico splendore.
Solitudine e soggettività spinte al massimo. Due condizioni essenziali per chiunque voglia definirsi poeta. Lo pensava anche Italo Calvino quando, in un successivo commento degli anni ’60 – il romanzo è del ’57 – lo scrittore dei Nostri antenati riconobbe che, per essere interessante, Cosimo Piovasco di Rondò, il Barone Rampante, non sarebbe dovuto essere un misantropo, bensì il contrario. Ma subito si affrettò a sottolineare che la solitudine e la scomoda soggettività sono la vocazione del poeta, dell’esploratore e del rivoluzionario. E Menon nella sua poesia e con la sua poesia lo è stato: poeta, esploratore e rivoluzionario della parola. Un buongustaio delle parole, è stato Menon; di lui si può dire, come è stato detto per Wallace Stevens, che «era innamorato del sapore e del bagliore delle parole», della vita incandescente delle parole; era come se le parole lui «se le passasse sulla lingua come fa chi assaggia il vino di un’annata rara».
Menon si è creato/inventato una lingua per descrivere il mondo, i ricordi, la sua vita proclamando e incarnando in tal modo l’arbitrarietà della parola quando essa si trova ad essere in volontario esilio dal mondo e dal linguaggio. Menon è stato «costretto» a crearsi una lingua propria. La sua è stata una titanica impresa di rinominare il mondo, la vita vissuta, il presente, i ricordi. Ha trasferito il mondo in un suo universo metaforico e metonimico; ha separato l’ordine semantico da quello sintattico procedendo per accumulo di immagini e per cifratura di elementi. La sua poesia non parla delle cose, degli aspetti o delle figure del mondo, ma è essa stessa «la cosa», l’accadere del mondo, il flusso inarrestabile dell’evento; è memoria e mondo insieme.
Non è forse vero, come sostiene George Steiner, che «gran parte della luce che possediamo sulla nostra condizione esistenziale, interiore, è tuttora colta dal poeta»? L’uomo, lo sosteneva già Aristotele, è una «creatura delle parole», uno ζῶον λόγον ἔχον. Il logos è la parola che crea il proprio contenuto.

La poesia è stata l’unica amante a cui Menon restò fedele per tutta la vita. Lui non ha scritto per freddo e calcolato esercizio sperimentale né per correre dietro a mode, bandiere, manifesti, bensì per intima necessità di vita, come pare che sia stato per Zanzotto o forse, ancor più, per quell’altro irregolare e grande sconosciuto che è Augusto Blotto, il Menon torinese.
Menon pensava che se esiste la possibilità di un «verbo» non falsificante, capace di dire ciò che normalmente la parola non sa dire, questa possibilità sta nel verso, nella poesia. «La poesia – come ha scritto Ornella Civardi introducendo per il lettore italiano le quartine di Ikkyū, Nuvola Vagante, celebre monaco buddhista e grande maestro zen del XV secolo che presenta straordinarie analogie con Menon - , la poesia si impone con una forza d’urto irresistibile. La carica cognitiva che porta con sé è così forte da destrutturare le barriere del senso e aprire la strada fino al cuore dell’Essere». Anche per Menon la poesia fu un’ossessione di tipo erotico. Come per Jiří Orten, anche per piccolo uomo di Medea scrivere poesia fu come respirare: argine contro l’assurdità della vita, ricerca dell’essenza dell’uomo nell’impenetrabile nulla che lo avvolge, ma anche barlume di speranza prima o poi spento. «Solo questo è il mio mondo – ha scritto il poeta ebreo di lingua ceca dal tragico destino -, la mia speranza, la mia fede: scrivere, scrivere fino al termine estremo». Menon avrebbe potuto sottoscrivere queste parole. Loro due lo sapevano bene che non sarebbe cambiato nulla e che non c’era, non c’è scampo, «ciò nonostante bisogna aderire al proprio destino, guizzare nell’inestricabile assurdo, trovando salvezza in sé stessi, dare un senso a ciò che è più disperato. Bisogna caparbiamente compiersi fino in fondo, essere, prima che vengano a prenderti».
Scrivere, scrivere e ancora scrivere: questa fu per Menon l’unica ma impossibile via di fuga – fuga, non salvezza – dalla sterilità e dalla reclusione della sua vita privata.

La poesia di Menon, come quella di Lorenzo Calogero, è «un groviglio apparentemente insensato – così definì quella del medico di Melicuccà, Leonardo Sinisgalli -, un arbusto che geme nel vento o il lampo incerto che ritroviamo a fatica, e – aggiungo io - a volte con pena e a volte con felicità, nel brulichio della memoria. Non restano una storia, una figura, un oggetto, ma soltanto il fluire di una vena, l’incanto di una voce».
Lo psicanalista Marco Focchi («il Verri», n. 21, gennaio 2003), partendo dall’affermazione di Lacan sulla vita come qualcosa di estremo e della quale «non sappiamo niente», e dalla possibilità di una lingua non più separata dall’«evento» ma connessa ad esso (l’evento che coincide con il «reale della vita»), ha proposto, per quella di alcuni scrittori, una luminosa definizione: «lingua indiscreta»: «Non si tratta di un piano discorsivo in cui l’evento viene narrato, perché per essere narrato deve essere assente, deve essere mancante. È un piano dove il linguaggio è connesso con l’evento, e che proprio per questo non entra nel meccanismio della ripetizione. È una lingua senza grammatica, senza parti articolate, una sorta di lingua indiscreta: che non è suddivisa in elementi e che non nasconde una verità da svelare perché ostenta piuttosto la propria intimità con il pulsare della vita».
Ecco perché, per Menon come altri poeti simili a lui, simili a lui voglio dire per cifra esistenziale o stilistica o per entrambe – mi vengono in mente alcuni nomi: per la prosa il questore Antonio Pizzuto; per la poesia Amelia Rosselli, Paul Celan, il medico di Melicuccà Lorenzo Calogero, Saint-John Perse, Vladimir Holan, Andrea Zanzotto, Lucio Piccolo di Calanovella, ma soprattutto Augusto Blotto (devo la segnalazione di quest’ultimo, un perfetto alter ego torinese di Menon, alla cortesia e alla generosa disponibilità – due atteggiamenti che al giorno d’oggi sembrano essere irrimediabilmente fuori corso - del professor Stefano Agosti, il maggior esperto italiano di Zanzotto) -, ecco perché, dicevo, leggendo i versi di Menon, non ha molto senso interrogarsi sul reale significato delle parole, delle immagini, delle metafore e delle metonimie. A coloro che chiedono una traduzione in chiaro della parola cifrata, mi permetto di ricordare che anche i grandi maestri zen negavano qualsiasi chiarimento o spiegazione dei loro mantra astratti agli ansiosi e reverenti interrogativi degli adepti.
La poesia, ne sono convinto, è prima di tutto, prima di ogni esegesi critica e filologica, un mistero. Come l’amore. L’amore, se il corpo non ne è invaso, niente può accenderlo. Così la poesia: se i versi che state leggendo non risuonano nel vostro cuore, non cantano nella vostra mente, non c’è esegesi critico-letteraria che riesca a farlo. Si possono, anzi si devono studiare e analizzare quei versi, ma amarli è un’altra cosa.
Una sola volta Menon si è per così dire distratto o ‘tradito’ - forse perché in quell’occasione scriveva soltanto per sé -, una sola volta su 100mila poesie. E ci ha regalato l’esegesi autentica, la decrittazione d’autore di una sua poesia. «Il valore dei simboli – scrive in un appunto del 3 giugno 1997 - non è fisso, costante; i simboli hanno valore diverso nei diversi contesti e (…) può riferirsi, si riferisce a cose a situazioni a episodi diversi, non bisogna lasciarsi ingannare dalla stessa parola, simbolo di cose diverse che si riferisce a cose diverse».
E anche se la sua poesia a molti, forse ai più, non piace, di lui mi sento di dire, parafrasando Eliot su Pound (si parva licet eccetera eccetera), che Menon è stato tra i «migliori fabbri» della parola, un eccellente artigiano del logos, un sopraffino orafo del linguaggio, un prestidigitatore del lessico; le sue poesie sono musica per le orecchie (per le mie almeno), carne che canta. Ha scritto Antonio Gnoli a proposito di Zanzotto (e di Celan, di Heidegger, di Hölderlin e di Menon mi permetto di aggiungere io) che «la poesia più intensa è povera di cose e di cose povere si compone. Non insegna, non ammonisce, non indica la strada, Né suggerisce soluzioni. Essa è la magica forza del vuoto [il Nulla di Menon], impossibile da fissare». «Siamo – ha scritto Zanzotto - come sospesi tra necessità e finzione. La poesia è la sola lingua che insegna a dialogare con la lontananza e la solitudine. La poesia è ferita e farmaco insieme». E poi, non è forse vero che «i più disperati sono i canti più belli» (Alfred de Musset)?

Menon aveva una solidissima formazione classica e umanistica come era normale a quei tempi. Dal punto di vista filosofico la sua concezione del mondo era sicuramente debitrice di Epicuro (che in un appunto del 1997 definisce, non si sa con quanta icastica autoironia, «scozzonatore di vergini») e in particolare del suo monito: «Λάθε βιώσας, vivi nascosto»; ma poi anche di Epitteto, di Gorgia e Protagora, dei sofisti e degli stoici, degli scettici e dei neo-pirroniani (con particolare riferimento al concetto di ἐποχή), e ancora di Pascal, Schopenhauer, Leopardi, Ortega y Gasset e di Carlo Michelstaedter (del quale ha sempre parlato a lungo e con insistenza ai suoi allievi). In un appunto dell’agosto 1996 scrive: «Io non ho avuto idoli, forse due: Rensi e Baudelaire e forse Rimbaud». Ma in un’annotazione successiva dell’aprile-maggio ’97 rivendica orgogliosamente: «Non mi occorrono maestri, io ho quello che mi occorre. Ogni uomo è sé, nessun paragone fra uomini, solitudine essenziale», ma nel luglio 1996 aveva ammesso che «l’uomo, il maestro, il poeta ha bisogno di consensi, di accettazione». È sicuramente Giuseppe Rensi, filosofo solitario e inattuale per eccellenza, il pensatore che sembra aver più profondamente influenzato il nostro poeta: basti pensare alla «isostenia dei logoi», da Menon costantemente predicata, oppure alla concezione rensiana della storia come caso e ripetizione o a quella dell’uomo come inerme e nuda preda del caso e della paura, concetti che Menon aveva interiorizzato e fatto propri e che continuamente ci ripeteva in aula. In un appunto manoscritto dell’ottobre 1997 scrive: «Il caso, sì il caso, nessuna legge né di natura né di spirito, né bassa né alta». Nel novembre 1995 elenca i capisaldi del suo pensiero, il suo identikit esistenziale: «Soggettività spinta, dubbio sistematico, isostenia, fede oscillante, paura, viltà, epoché». Una forte influenza su di lui ha sicuramente esercitato Nietzsche (con la sua convinzione dell’impossibilità di raggiungere la verità), anche riguardo alla fede e alla religione: Menon, infatti, nelle sue «note marginali dello sconforto» e nelle sintetiche autobiografie che ha periodicamente continuato a scrivere fino all’ultimo anno di vita preoccupato di lasciare di sé una identità esatta e, per così dire, autocertificata, non si dimentica mai di ribadire e sottolineare l’aria contadina e cristiana respirata nell’infanzia. Nei versi scritti negli ultimi dieci anni di vita, il poeta spesso nomina e invoca Dio e soprattutto il Cristo, quest’ultimo, forse, di nuovo in senso nicciano come l’unico vero cristiano contrapposto alla Chiesa e al Cristianesimo. E poi ancora, per motivi e con influenze diverse, Menon si rifà a Heidegger (per anni ha continuato ad adottare come lettura da portare all’esame di Stato Was ist Metaphysik?), al neopositivismo logico della Scuola di Vienna, alla filosofia del linguaggio e a Wittgenstein (io sono il mio mondo; i limiti del mio linguaggio sono i limiti del mio mondo; su ciò, di cui non si può parlare, si deve tacere).

È però opportuno a questo punto riferire in breve come siamo arrivati fino qui. Il libro di inediti poetici che viene presentato oggi è un canzoniere d’amore, 103 componimenti che Menon scrisse in un brevissimo arco di tempo: 1 mese, l’agosto 1968, ai quali abbiamo aggiunto le 5 lettere che l’autore spedì alla destinataria e ispiratrice dei versi nonché 7 poesie composte poco più di un anno dopo e dedicate alla stessa giovane donna. Per inciso, desidero sottolineare che queste 5 lettere – ma sarebbe più appropriato definirle pagine di diario – sono quasi gli unici esemplari della fitta corrispondenza che Menon intrattenne durante la sua vita con numerosi interlocutori, in prevalenza allievi o ex allievi. Anzi, meglio: allieve o ex allieve. Dico «quasi» perché proprio recentissimamente siamo riusciti a entrare in possesso di due lettere autografe, brevi ma illuminanti, inviate da Menon alla vedova del suo più caro amico di giovinezza, Carlo Bonnes, scritte alla metà degli anni ’50 dell’altro secolo.
Un anno e mezzo fa è stata la stessa destinataria del canzoniere d’amore, una ex allieva del professore, a mettere il materiale a disposizione per la pubblicazione. In seguito, il ritrovamento nella casa di Menon di 25 pacchi di manoscritti e dattiloscritti con migliaia di poesie inedite nonché di centinaia di appunti, pensieri, riflessioni del poeta – tutto materiale riferibile al decennio 1990-1998 – ai quali si sono aggiunti via via altri copiosi materiali inediti precedenti o addirittura successivi al ‘98, ci ha convinti della necessità di costituire un apposito fondo Menon alla biblioteca Joppi di Udine. Infine i quattro nipoti di Menon e alcuni ex allievi hanno istituito una borsa di studio post lauream per il riordino e la catalogazione di tutte queste carte.
La ricerca di un editore non è stata impresa facile, ma per fortuna nel mondo dell’editoria ci sono ancora editori veri, galantuomini come Nino Aragno che quando credono in un progetto non si fanno certo smontare dall’inflessibile e cieca partita doppia del dare e dell’avere, un editore Aragno interessato prima di tutto e soprattutto all’aspetto e allo spessore culturale delle pubblicazioni non a quello finanziario o economico. Di qualità e livello nazionali, come è noto, Aragno canta fuori del coro della sua categoria; è un editore che, come qualcuno ha scritto, «prova piacere dinanzi alle imprese impossibili». Anche qui intendo testimoniargli la mia affettuosa riconoscenza e rendergli pubblico omaggio.

In vita e anche dopo Menon è stato scandalosamente trascurato, negletto, dimenticato. Pensate: nel Nuovo Liruti, il dizionario dei friulani illustri o comunque significativi, il suo nome non compare! Ora però c’è questo canzoniere d’amore e soprattutto, tra qualche settimana, un volume molto più consistente, ricco e documentato che uscirà per i tipi di KappaVu di Udine con una biografia del poeta finalmente fatta come si deve, un’ampia monografia scritta dal professor Rienzo Pellegrini dell’università di Trieste (il primo vero, ampio e approfondito saggio critico sulla poesia di Menon), un’antologia che copre tutto l’arco della produzione del poeta nonché in allegato, come una ciliegina sulla torta, un cd musicale con l’esecuzione degli spartiti che 7 musicisti hanno composto per Menon: va ricordato infatti che tra il 1971 e il 2012 ben 10 compositori hanno scritto musiche ispirandosi ai suoi versi: non male per uno che non ha pubblicato quasi niente, no? Beh, credo che ora sarà più difficile ignorare il poeta di Medea. Menon, come capita a volte ai poeti, è giunto all’improvviso e inaspettato alle nostre porte come i viandanti nel più gelido degli inverni o nelle più torride delle estati. Varrà la pena di aprirgli fiduciosamente la nostra porta? Io sono convinto di sì.

Per quanto riguarda il canone poetico, al lettore apparirà subito evidente il grande debito che Menon aveva con i simbolisti francesi: Rimbaud («Non so quanto e come capito», febbraio-aprile 1997) e Baudelaire soprattutto, ma anche Mallarmé, quindi Valery e il russo Sergej Esenin. Sono questi cinque i suoi numi tutelari, una discendenza diretta da lui stesso più volte segnalata e sottolineata. «La mia strada della scomposizione: I Baudelaire ma lui(?) ancora arcaico, poi II Rimbaud e (…) III Valery, Mallarmè e un salto(?) a Esenin». Gli esponenti principali dell’ermetismo italiano invece Menon li nomina poco o punto; per ora abbiamo trovato solo una annotazione del settembre-ottobre ’97 dove scrive: «Più (ma molto poco) Quasimodo che Montale». Menon sembra aver assimilato la lezione di Mallarmé (le parole implicano l’assenza di ciò che designano, il linguaggio è ontologicamente vuoto), ma la supera (il linguaggio è ontologicamente pieno anche se ermetico ed enigmatico). Come ogni vero poeta, Menon ha saputo confrontarsi con una condizione di esilio dalla realtà e dalla lingua (Josif Brodskij), conquistare la propria realtà (o riviverla nella memoria) e definire/creare una propria lingua. Per riuscire a parlare, a (de)scrivere il suo mondo si è dovuto creare una lingua poetica personalissima da lui volta a volta impiegata su registri alti/aulici, medi o plebei e nella quale si possono qua e là cogliere influssi, impasti, inserzioni, sonorità da lingue, linguaggi e dialetti i più disparati. «Della mia poesia – annota nell’ottobre 1997 - non bisogna preoccuparsi dei contenuti né dei messaggi o dei racconti ma di strutturazione delle parole, dei ritmi, degli incastri, degli accostamenti, travestimenti, tradimenti». E l’anno seguente puntualizza: «[La mia poesia è] tutta basata sul ricordo, sulla memoria e sulla trasfigurazione simbolica della realtà» e ne fissa le caratteristiche fondamentali: «Prosodia, metonimia (la figura retorica principale delle mie poesie, una parola per dire altro, una parola simbolo di altro), simbolismo, nominalismo, scomposizione». E così, trasfigurando e inventando, Menon riesce a compiere la titanica impresa di rinominare il mondo, la vita vissuta, il presente e i ricordi. Forzando il lessico ai limiti dell’indicibile, Menon sembra aver fatto suo il lapidario appello di Paul Celan (poeta che a scuola, curiosamente, non ricordo di avergli mai sentito nominare) per una lingua «a nord del futuro» visto che la Sprache, il Logos erano degenerati in Prosa a sua volta corrotta in Gerede, in chiacchiera.

Chi vi parla ha calcolato, sicuramente per difetto, che Menon fra il 1993 e il 1999 abbia scritto almeno 14mila poesie, il che vuol dire 5,5 poesie al dì per ognuno dei 2.555 giorni del periodo. Nino ha sempre scritto molto, ma negli ultimi 10 anni di vita, bloccato forzatamente in casa a causa dell’età avanzata e del fisiologico decadimento fisico aggravati da acciacchi e malattie varie (compresi diversi ricoveri ospedalieri), sembra aver centuplicato la produzione poetica. In quegli ultimi anni ha scritto con una specie di furia febbrile, in modo compulsivo. Perché? Già molto anziano Menon scopre, indignato sorpreso e sgomento, non solo che il suo corpo non risponde più come lui vorrebbe, ma soprattutto che la sua solitudine e il suo isolamento sono irrimediabili. Lui, la tragica solitudine dell’essere umano, in precedenza l’aveva sempre teorizzata, perfino rivendicata con cinica spavalderia intellettuale, ma soltanto ora ne sperimenta davvero gli effetti sulla propria pelle, sente il cocente rammarico di aver avuto/voluto «una vita non vissuta», solo ora assume la piena e dolorosa consapevolezza che fin lì dov’è arrivato nessuno, nessuno lo ha accompagnato, che i giochi sono ormai fatti e non si può più tornare indietro.
Eppure, alla fine, quanto avrebbe voluto un braccio al quale appoggiarsi, una piccola mano da stringere, un cuore di cui ascoltare il palpito, qualcuno da cui trarre un po’ di calore. Perché lui è ancora capace di farsi accendere e devastare dalle cose dell’amore. In una poesia del giugno-agosto 1997, che reca il numero 2912 c’è un verso che parla dei: «(…) nini morti d’amore (…)» [Gian Giacomo era chiamato Nino in famiglia e dalle persone più care e vicine]. «Perfino Nietzsche, nel suo agghiacciante isolamento, invoca a gran voce un’eco che gli risponda», ci ricorda George Steiner. E allora Menon che fa? Intanto cerca di liberarsi di tutto il superfluo. «Rovistare, rimestare giorno dopo giorno, diminuire, sveltire, rifiutare, rinunciare giorno dopo giorno, solo l’essenzialissimo»; «Solitudine, limitare esigenza di comunicazione, di approvazione altrui. Semplificazione, elisione, rinuncia e rifiuto, essenzialità, schema» (agosto 1996); «Eliminato anche il sapone da barba», appunto autografo, senza data, ma probabilmente del 1998 o ‘99).
Si butta in quello scrivere «matto e disperatissimo», si stordisce con la scrittura per ottundere il dolore, per tentare – vanamente – di allontanare da sé l’ombra della fine, il fantasma della Vecchia Mietitrice che gli alita sul collo. Specularmente a Katherine Mansfield che non voleva morire per poter scrivere ancora e ancora, Menon scriveva ancora e ancora per non morire. Che altro poteva fare? «Tu dici – scrive nell’agosto 1996 rivolgendosi alla donna che è stata l’amore degli ultimi vent’anni – che mi stanco a scrivere, e che cosa dovrei fare in tutte queste vuote ore di solitudine[?]».
E ora mi piace pensare che quel verso, quei «nini morti d’amore», sia un po’ come un’ultima lezione del professore-poeta, un’esortazione finale e conclusiva rivolta a ognuno di noi per non mandare mai in pensione, finché abbiamo un alito di vita, i sentimenti, le emozioni, la capacità di appassionarci e di innamorarci. Ce lo dice lui che, a 90 anni, era ancora capace di impazzire e morire d’amore.
Come scrisse 47 anni fa «La Fiera Letteraria»: «Di Gian Giacomo Menon non sappiamo quasi nulla. Sappiamo solo che è un poeta, un vero poeta, ed è questa forse l’unica cosa che conti». Quel che è certo era pazzamente innamorato della «vita incandescente delle parole»: quello è stato il più grande, fedele, immutabile, ossessivo e probabilmente unico vero amore e conforto della sua vita. Lo pensavano anche Franz Kafka («La lingua è un’amante perpetua») e André Breton («Le parole fanno l’amore» anche se derivano «dalla bocca d’ombra»).

Vorrei aggiungere qualche considerazione e riflessione sul Menon professore liceale. Che tipo di insegnante è stato Menon? Difficile rispondere. Se fate un sondaggio tra i miei compagni della III A dell’anno scolastico 1967-’68, anche oggi a oltre 40 anni di distanza, ne ricaverete risposte diverse e contraddittorie: ci fu chi sentì il bisogno di prendere lezioni private di filosofia in vista della maturità perché pensava di essere impreparato nella materia (eppure, oltre 40 anni dopo, uno dei miei figli ha studiato con profitto sui miei appunti di filosofia presi durante le lezioni di Menon) e chi al contrario da lui si vide in qualche modo segnata o tracciata la vita futura. Una cosa è sicura: alle sue lezioni non ci si annoiava.
Quando un paio di anni fa ci siamo riuniti a Udine per una cena, una quindicina di noi della III A di allora, come succede in questi casi è subito partita la rincorsa dei ricordi, condita con gli immancabili aneddoti, su quelli che noi eravamo allora, sui compagni incontrati e persi per strada ma soprattutto sui professori che abbiamo avuto nei 5 anni del liceo. E se molti di questi ultimi sono a loro modo indimenticabili (qualcuno anche in senso negativo): la signorina gozzaniana tempi Lucia Pezzali, il candido don Rossitti, il mammasantissima di Daniele Comei, la presuntuosa Silvia Crichiutti, l’umanissimo Tarcisio Petracco, l’arguto Bruno Londero, il sanguigno pre Checo Placereani, il tenero Franco Venturini, uno solo tra loro è risultato essere, se così si può dire, il più indimenticabile di tutti: Menon. Quello che ha lasciato segni, orme, tracce, a volte perfino ferite, più profondi e duraturi. Più d’uno degli ex allievi non ha ancora finito di fare i conti con quell’insegnante scomodo, ingombrante, insopportabile e adorabile che è stato Menon. So per conoscenza personale che ci sono tuttora suoi ex allievi ed allieve, di età variabile tra i 55 e i 75 anni, per i quali quel lontano rapporto con il Fatale Professore (è la magistrale definizione che ne ha dato uno di loro) costituisce una dolorosa ferita ancora aperta nel peggiore dei casi o un oscuro grumo rimosso a stento e con fatica nel migliore.
Vi leggo un elenco di definizioni di lui; sono tutte pertinenti e azzeccate ma nessuna in grado da sola di essere esauriente: strambo, eccentrico, beffardo, offensivo, irrispettoso verso tutto e tutti in primis i suoi allievi, stravagante, snob, narciso, crudele, elitario, maschilista all’ennesima potenza, distruttivo, prevaricatore e provocatore, istrione, uno che nel ferirti sembrava provarci gusto, un manipolatore… Menon era famoso a scuola e in città per i suoi atteggiamenti e comportamenti bizzarri, spiazzanti e sconcertanti (come lo starsene rincattucciato in silenzio sotto la cattedra per tutta la durata della lezione, leccarsi ostentamente il gesso dalle dita dopo aver scritto alla lavagna, indossare l’uno sopra l’altro occhiali da vista e da sole, venire in classe in una calda giornata di primavera intabarrato fino alle orecchie nel suo celebre trench e con i guanti di pecari sempre infilati o azionare l’interruttore della luce con un calcio ben piazzato…).
Era quasi impossibile restare indifferenti anche se avveniva più spesso di quanto non ci si immagina: è accertato comunque che in ognuna delle classi in cui ha insegnato – gli sono passate tra le mani due generazioni di studenti friulani – Menon ha suscitato grandi «innamoramenti» e «passioni» (con e senza le virgolette; io sono un esempio con le virgolette!) - soprattutto sembrava esercitare un particolare ascendente sulle giovani allieve.
E’ difficile non ammettere che «l’erotismo, coperto o dichiarato, fantasticato o messo in atto, è intrecciato intimamente all’insegnamento» e che nell’insegnamento è insito un inevitabile processo di seduzione. Il docente si rivolge alla mente, ma anche al corpo dell’allievo, due sfere inseparabili. E Menon lo era, a tutti gli effetti, un seduttore e un dongiovanni intellettuale.
Ma accanto agli innamoramenti, il mio professore provocava anche altrettanto veementi ripulse, irritazioni, rifiuti, risentimenti. E accanto a queste due c’è sempre stata anche un’inspiegabile (per me, inspiegabile) ma ampia zona grigia di indifferenti. Non c’è da meravigliarsi: anche gli atteggiamenti nei confronti di Socrate coprirono ogni sfumatura: dall’adorazione all’odio assassino (l’odio che è il lato oscuro dell’amore).
È comunque assolutamente certo che Menon, come il vecchio Dencombe di un celebre racconto di Henry James «ha fatto vibrare qualcuno», e che questa, alla fine, è l’unica cosa che conta quando tiri le somme della tua vita.

E aveva pure un senso - anche se allora non lo capivamo - quel suo continuo, instancabile insistere, archimedeo o galileiano che dir si voglia, sulla precisione e il rigore, sulla scrupolosità e la cura dei dettagli e di quelle che «sembrano» minuzie: etimologiche, lessicali, filosofiche, ma che in realtà sono particolari (tecnici) che diventano visioni interpretative, grazie ai quali you see a World in a Grain of Sand…

Come vi dicevo, due anni fa ho constatato con stupore che nonostante tutti i rischi e i pericoli insiti da millenni nel rapporto maestro-allievo, rischi e pericoli immaginari/immaginati o tradotti in realtà, rischi e pericoli che hanno corso moltissimi suoi allievi, nonostante tutti i suoi difetti, Menon è tutt’oggi indimenticabile per chi lo ha conosciuto e frequentato. Come diavolo è possibile?
Io me lo spiego così: aveva alcuni doni che riversava intorno a sé. Intanto il carisma che è quell’attributo, come il coraggio di don Abbondio, che se non ce l’hai, non te lo puoi dare. Poi aveva il λόγος: questa polisemica parola greca che vuol dire tante cose: parola, discorso, intelligenza; ragione universale e pensiero divino secondo Eraclito, ragione generatrice che conferisce ordine e vita a tutte le cose per gli stoici, quel qualcosa che contiene in sé il bello, il buono e il giusto stando a Plotino… In terzo luogo, Menon fu un impareggiabile pontifex, letteralmente un costruttore di ponti tra culture e discipline diverse, ponti verso il mondo per sfuggire alle ristrettezze culturali e mentali della piccola provincia udinese.
Chi ha avuto Menon come insegnante ha avuto una fortuna, quella di trovarsi a contatto con il riverbero di una mente sopraffina e di alto livello. Tutti noi - anche i renitenti e i contrari e oserei dire perfino gli indifferenti - abbiamo sperimentato direttamente la minaccia che tale contatto costituiva, ne siamo stati in qualche modo infettati. Dopo quel contatto, molti di noi non hanno più potuto dimenticare né quella luminosità né quel riverbero né quella minaccia. Forse sono inattivi e silenti quei germi, quegli agenti dell’infezione, ma sono sempre lì, in agguato, annidati dentro di noi e pronti a balzar fuori. L’eccellenza può dimostrarsi spesso brutale, confrontarsi con essa è un agòn, un pòlemos. A scuola come nella vita.
Ma qualcuno di noi, anche se allora lo capivamo poco e male o punto, ancora oggi è fiero di essere “sopravvissuto” alle sue lezioni. Quando sei stato esposto a quel virus, non importa quanto a lungo, te ne rimarrà sempre un riverbero, uno stigma. Per il resto della tua carriera e della tua vita privata, magari del tutto normali, magari banali e prive di distinzione, avrai, come avverte Steiner, «una protezione contro il vuoto». Considero un privilegio l’essere stato uno dei suoi allievi, anche se non ero tra i migliori e più distinti. E consapevole di quello che mi ha dato, del debito che ho nei suoi confronti, a ognuno dei miei tre figli, quando hanno fatto il loro ingresso alle superiori (quella fase che corrisponde probabilmente alla più importante e magica stagione della vita), ho augurato soprattutto una cosa: di avere nella loro vita scolastica almeno un insegnante, fosse pure uno solo, come Menon. Oggi però considero una fortuna anche l’essere riuscito a sottrarmi in tempo alla sua avvolgente e manipolatrice influenza, per altro così stimolante e seduttiva. «Guardatevi dal grande insegnante», ammoniva Agostino che aveva un certo fiuto per le seduzioni. All’epoca c’era troppo squilibrio tra noi e tutto o quasi giocava a mio sfavore. E poi, immediatamente dopo il liceo, vennero il Maggio e la stagione dei movimenti, l’autunno caldo, le stragi, l’impegno politico: non c’era tempo né per la poesia né per Menon.
Menon, come dicevo all’inizio, sosteneva non solo l’assurdità dell’esistenza dell’uomo ma anche l’irrimediabile e inemendabile solitudine dell’essere umano («Ognuno sta solo sul cuor della terra…»). In che altro modo se non come il «certificato anagrafico della sua solitudine» potrebbe essere definita kafkianamente la sua sterminata produzione poetica? Eppure questo sacerdote della solitudine anelava al dialogo, aveva sete di dialogo e «di rischi condivisi, fisici e intellettuali, con i suoi allievi»; cercava a modo suo di condividere almeno con qualcuno di noi la sua libido sciendi, la sua sete e amore di conoscenza. E’ vero che senza solitudine non c’è visione e che il poeta, l’artista devono drammaticamente scegliere tra la perfezione della vita e quella dell’opera come ci ricorda Yeats, ma è anche vero che senza un pubblico, sia pure ristretto, sia pure ridotto all’unità, nessuna verità può essere rivelata. «In una classe - mi chiese una volta - quanti allievi pensi che debbano seguire con partecipazione e interesse le mie lezioni perché io mi ritenga soddisfatto?». «Mah, non so – risposi -, la metà, un terzo…». «Uno, me ne basta uno per classe!», rispose. Anche ai veri cabalisti e a certi maestri eremiti era concesso un solo discepolo; Nietzsche ebbe un unico allievo: Peter Gast.
Lo sanno bene gli insegnanti e lo sappiamo anche noi che insegnanti non siamo, che si può insegnare in tanti modi, ma che l’unico modo per insegnare con grandezza e lasciando un segno davvero duraturo è suscitare dubbi e domande negli allievi, allenarli al dissenso, prepararli al distacco: «Ora lasciatemi», ordina Zarathustra; Empedocle prega il suo discepolo di lasciarlo solo sul ciglio del cratere. Un maestro di valore alla fine deve, dovrebbe rimanere solo. Menon alla fine rimase solo.
Come ha scritto il mio amico e compagno Giuliano Abate nel corso di uno scambio di messaggi riguardanti il nostro professore: «E’ impossibile parlare di Menon facendo astrazione dalla storia del proprio rapporto con lui. Per forza di cose, per noi che lo abbiamo avuto vicino e che abbiamo goduto della sua presenza nelle aule e nei corridoi dello Stellini, vuol dire continuare a riflettere e a ricostruire i passaggi più autentici della nostra crescita e maturazione (le sottolineature sono mie)».

Cesare Sartori

Gian Giacomo Menon nacque nel 1910 a Medea (Gorizia), allora territorio austriaco. Dal 1937 all’anno della morte (2000) ha vissuto e insegnato a Udine.
Pensiero individualista, solipsista, pragmatista, sostenitore della isostenia dei logoi, definiva così i suoi «segnali di vita»: casualità, nudità, paura.

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