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La tua fredda lama,
vento di febbraio,
non temono le betulle
né il cuore.
Hai scavato le nicchie
e ognuno ti ebbe per le fessure.
Nella cava canna del flauto
hai soffiato la pena,
chiuso negli occhi
un cristallo nuovo
perché fosse puro lo sguardo
e nessuna frangia del passato restasse,
ciglia di ricordi.
Spingi per i sentieri della neve
le rosse mandrie
a bruciare nei prossimi solstizi
quando le colonne dei templi
saranno fiamme di un rinnovato rogo.
Mio dolce vento,
non sono deserte le tue mani
con le piazze
dove rotola un’ultima carta
con sgualcite parole
né le tue dita nude,
rami senza foglie e nidi.
Presento le gemme e il canto
nella larga gola dei fiori,
commozione ripetuta
di ardimenti improvvisi.
E’ lei che ritorna
nella tua furia di sibili
a inventare le cose,
non mai esausta di prospettive
come i suoi capelli
dentro cui batti l’allarme e il tempo.

Gian Giacomo Menon nacque nel 1910 a Medea (Gorizia), allora territorio austriaco. Dal 1937 all’anno della morte (2000) ha vissuto e insegnato a Udine.
Pensiero individualista, solipsista, pragmatista, sostenitore della isostenia dei logoi, definiva così i suoi «segnali di vita»: casualità, nudità, paura.

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