Menon spiega Heidegger

Che cos’è (la) Metafisica?[1]

di Martin Heidegger

 

 

 

   Che cos’è la Metafisica? La domanda sveglia l’aspettazione che si parli su la Metafisica. Noi rinunciamo a ciò, e ci poniamo, invece, una questione metafisica determinata[2]. Così facendo, noi ci troveremo immessi, come pare, immediatamente, nel seno stesso della Metafisica, e soltanto così noi le procureremo il mezzo più idoneo per presentarsi da se stessa[3].

   Cominceremo con l’esplicazione[4] di una questione; ne tenteremo, quindi, l’elaborazione[5]; termineremo, infine, con la soluzione[6] di essa.

 

 

ESPLICAZIONE DI UNA QUESTIONE METAFISICA.

 

   Secondo lo Hegel, la filosofia[7] – dal punto di vista dell’intelligenza normale[8] – è il «mondo rovesciato»[9]. Di qui la necessità di caratterizzare, in via preparatoria, la peculiarità del nostro punto di partenza. Tale peculiarità risulta dal duplice carattere di ogni questione metafisica: in primo luogo, essa comprende sempre la problematica della Metafisica nella sua totalità (è, anzi, questa totalità stessa), in secondo luogo, nessuna questione metafisica può venire in discussione, se non in quanto il questionante – come tale – si trova coinvolto nella questione, ossia è posto in questione egli stesso (a)[10].

   Di qui si ricava il precetto: ogni questione metafisica deve essere posta nella totalità e, sempre, dalla posizione[11] essenziale di quell’esistente che muove la questione. Siamo noi[12]che poniamo la questione qui e ora, per noi. Il nostro essere esistenziale[13] nella comunità d’indagatori, di maestri, di studiosi – è determinato per mezzo della scienza[14]. Ora, che cosa accade di essenziale con noi, nel fondo dell’essere esistenziale, appena che la scienza è divenuta la nostra passione?[15]

   I campi delle scienze giacciono lontani l’uno dall’altro. Il modo di trattare i loro soggetti[16] è fondamentalmente diverso. Questa sparpagliata molteplicità di discipline viene oggi tenuta insieme soltanto dall’organizzazione tecnica[17] di Università e Facoltà, e dalla finalità pratica da cui ricevono la loro importanza le discipline particolari. Ma la sorgente comune delle scienze, che ne dà l’essenza fondamentale, si è inaridita (c).

   E tuttavia, in tutte le scienze, seguendo la loro più propria intenzione, noi ci riferiamo all’essente stesso[18] . Dal punto di vista delle scienze, infatti, nessun campo ha una preminenza sull’altro: né la natura[19] su la storia, né viceversa. Non c’è un modo di trattare gli oggetti che sia superiore ad un altro[20]. La conoscenza matematica non è più rigorosa di quella filologico-storica[21]: essa ha soltanto il carattere dell’«esattezza», che non è la stessa cosa del rigore[22]. Richiedere alla storia esattezza è andar contro l’idea del rigore ch’è proprio delle scienze dello spirito.

   Tutte le scienze, come tali, sono pervase e dominate da un riferimento al mondo, che fa loro cercare l’essente stesso, nel suo contenuto e modo di essere, per farne oggetto d’indagine e determinazione fondamentale. Nelle scienze si effettua così – conformemente alla loro idea – un approssimarsi a ciò ch’è l’essenziale di tutte le cose (d)[23].

 

   Questo caratteristico riferimento, nel mondo, all’essente stesso è portato e guidato da un atteggiamento, liberamente scelto, dell’esistenza umana. All’essente, infatti, si riferisce anche l’agire[24] e fare[25] umano pre- o estrascientifico[26]. Ma la scienza ha il suo contrassegno in questo: che, essa, in un modo suo proprio, dà espressamente ed unicamente alla cosa stessa[27] la prima ed ultima parola.[28] In tale ricerca, determinazione e motivazione che ha luogo per entro l’essere delle cose, ci si sottomette[29] entro limiti determinati, all’essente stesso, allo scopo che questo si metta in grado di rivelar se stesso.[30] Questo atteggiamento di sudditanza della ricerca scientifica offre il fondamento della possibilità, ch’essa per tal modo acquista, di un suo dominio, sia pure limitato, nel complesso dell’esistenza umana. [31]

   Il particolare riferimento al mondo, che ha luogo nella scienza, e l’atteggiamento umano[32], che a questo dà la direzione, si comprende[33], però, interamente solo se noi guardiamo e badiamo a quel che accade in tale atteggiamento e riferimento. L’uomo – un essente fra gli altri – «fa della scienza». In questo «fare» avviene niente di meno che l’irruzione[34] di un essente, detto Uomo, nella totalità dell’essente, e per tal modo che l’essente, in e per questa irruzione è costretto a rivelarsi per ciò che è e come è. L’irruzione[35] rivelatrice[36] serve, a suo modo, prima di tutto, all’essente[37] nel suo rapportarsi a se stesso[38].

   Questa triplicità – riferimento al mondo, atteggiamento, irruzione – conferisce, con la sua radicale unità[39], una luminosa semplicità e precisione dell’essere esistenziale nella sua scientifica sistenza.

Se, dunque, prendiamo espressamente in considerazione, rispetto a noi, tale essere esistenziale così illuminato dalla scienza, allora dobbiamo, necessariamente, dire: Ciò a cui mira ogni riferimento al mondo è l’essente stesso – e niente altro.

   Ciò di cui ogni atteggiamento prende la direzione è l’essente stesso e, oltre questo, niente altro.

Ciò in cui la ricerca, nell’irruzione, trova il suo accordo è l’essente stesso – e al di fuori e sopra questo niente altro (f).

   Ma – strano – proprio mentre lo scienziato vuole assicurarsi di ciò che più propriamente è suo, proprio in questo egli parla di altro. Egli vuole ricercare l’essente soltanto, e del resto niente; l’essente solo, e oltre questo – niente; unicamente l’essente, e al di fuori o sopra questo – niente.

Come e che è questo niente? È forse un caso che a noi avvenga di parlar così del tutto spontaneamente? È forse un modo di dire soltanto, e niente altro?[40]

   Ma allora perché ci preoccupiamo di questo niente? La scienza non ne vuole sapere, del niente[41]: lo ripudia come mera negatività. Pure, ripudiando in tal modo il niente, non gli diamo già con questo un riconoscimento? D’altra parte, si può parlare di un riconoscimento, se ciò che riconosciamo è niente? Ma, forse, quest’altalena del discorso si muove già in un bisticcio di parole vuote di senso[42]. Invece, oggi più che mai, la scienza di nuovo deve affermare, per la sua serietà e purezza, che essa si occupa unicamente dell’essente. Il niente – che può essere per la scienza altro che una mostruosità[43] o fantasticheria?[44]

   Se la scienza ha ragione, allora resta fermo soltanto questo: la scienza non vuol sapere nulla del niente. Questa è, infine, la comprensione del niente rigorosamente scientifica: noi sappiamo, del niente, questo: che di esso non vogliamo saperne.[45]

   La scienza non vuol saperne del Niente. E tuttavia è pur altrettanto fermo questo: là, dove essa tenta di esprimere ciò che le è essenziale[46], chiama in aiuto il niente. Ciò che rigetta[47], essa stessa lo esige[48]. Qual essere bifronte[49] ci si scopre mai qui?

   Riflettendo sulla nostra attuale esistenza – in quanto è determinata dalla scienza – noi siamo incappati nel bel mezzo di un conflitto. Con questo si è già esplicata una questione, la quale esige ora soltanto di avere la sua formulazione:

Come[50] e che cosa[51] è il Niente? (g).

 

 

ELABORAZIONE DELLA QUESTIONE[52].

 

   L’elaborazione della questione intorno al niente ci deve portare ad un punto di vista tale che da esso venga chiarita la possibilità o impossibilità della risposta: Al niente s’è dato un riconoscimento. Contro di esso, la scienza con superiore indifferenza lo ripudia come ciò che «non c’è».

   Non di meno tentiamo di chiederci: che cos’è il niente? Già al primo presentarsi delladomanda, avvertiamo qualcosa di strano: noi ammettiamo in precedenza il niente come qualcosa che «è» così e così – come un essente. E tuttavia esso è del tutto, assolutamente altra cosa. Far questione del niente – che cosa e come esso sia – è convertire ciò di cui si fa questione nel suo contrario. La questione si priva da se stessa del suo oggetto[53]. Conseguentemente è ovvio che non è possibile alcuna risposta alla questione[54]: poiché essa si muove già, necessariamente, nella forma che il niente «è» questo o quello[55]. Domanda e risposta, in riguardo al niente, sono parimenti, in sé, un controsenso.[56]

   Né c’è il bisogno, per il ripudio della questione, di ricorrere alla scienza. La norma del pensare in generale comunemente accettata, la «Logica» universale col suo principio di non contraddizione[57], sopprime la questione poiché il pensiero – che è sempre essenzialmente pensiero di qualcosa – dovrebbe qui agire contro il suo proprio essere come pensiero del niente.

   E però[58], essendoci negato in generale di prendere ad oggetto il niente, non ci sarebbe più niente da fare – nel presupposto, tuttavia, che in questa questione la «Logica» rappresenti la suprema istanza[59], e che l’intelletto sia il mezzo, e il pensiero la via[60], per comprendere originariamente il niente e decidere sul suo possibile disvelamento.

   La supremazia della «Logica» si può mettere in dubbio? Non è l’intelletto[61] realmente l’arbitro supremo in questa questione intorno al niente? È ben col suo aiuto che noi riusciamo a determinare il niente in generale, e a porlo come un problema, sia pure come un problema che annulla se stesso. Poiché il niente è la negazione di tutto l’essente, l’assoluto non-essente, noi portiamo, così, il niente sotto la superiore determinazione di ciò che è affetto di nullità, e però negato. Ma il negare è, secondo la dominante e non mai messa in dubbio teoria della «Logica», una specifica operazione dell’intelletto. Come possiamo, dunque, noi volere, nella questione del niente, anzi nella questione della sua questionabilità stessa, mettere da parte l’intelletto?[62]

   Eppure, è proprio sicuro ciò che qui presupponiamo? Il non, la negatività[63], e però la negazione[64], rappresenta la determinazione superiore, sotto la quale cade il niente come modo particolare del negato? C’è il niente soltanto perché c’è il non, ossia la negazione? O viceversa: c’è la negazione e il non, soltanto perché c’è il niente? Questo non è stato ancora deciso, anzi s’è mai espressamente sollevata la questione. Noi affermiamo: il niente è più originario[65] del non e della negazione.

   Se questa tesi è giusta, allora la possibilità della negazione, come azione dell’intelletto, e però l’intelletto stesso, dipendono, in certo modo, dal niente.[66] Come può, quindi, esso decidere su questo?[67] L’apparente contrasto tra la domanda e la risposta, in riguardo al niente, non poggia, alla fine, unicamente su una cieca ostinazione dell’errante intelletto?

   Se noi non ci lasciamo fuorviare dalla formale[68] impossibilità della questione, e la teniamo ferma, anzi, di contro ad essa; allora, dobbiamo, di necessità, soddisfare per lo meno a ciò che costituisce l’esigenza fondamentale per la possibile trattazione di ogni questione. Se in qualsiasi modo, sempre, il niente deve venire in questione – esso stesso – bisogna bene che, anzitutto, sia dato. Noi dobbiamo poterlo incontrare.

   Dove lo cerchiamo il niente? Come lo troviamo? Non bisogna, per trovar qualcosa, saper già, in generale, che c’è?[69] Infatti: innanzi tutto e soprattutto può l’uomo soltanto allora cercare, quando egli ha presupposto di aver sotto mano quel che cerca. Ora quel che si cerca è il niente. È possibile un cercare[70], insomma, senza quel presupposto, un cercare che debba puramente trovare?

   Comunque sia di ciò, certo è che noi conosciamo il niente, sebbene solo in quanto di esso, per un verso o per l’altro, parliamo ogni giorno.[71] Questo volgare[72] niente, che così inavvertitamente s’insinua nei nostri discorsi, scolorito nell’incolore uniformità dell’evidenza,[73] noi ce lo possiamo finanche, brevi manu[74], aggiustare in una «definizione», così: Il niente è la negazione pura e semplice[75] di tutto l’essente.

   Non dà, alla fine, questa caratteristica del niente, una indicazione della direzione, dalla quale, soltanto, esso[76] può venirci incontro? Il tutto dell’essente[77] deve essere già dato per poter, come tale,

cadere vittima della negazione semplicemente, sì che in questa[78] potrà, poi, far la sua comparsa il niente stesso.

   Tuttavia, anche se prescindiamo dalla dubbia[79] questione del rapporto fra la negazione e il niente, come possiamo, noi, essere finiti, far accessibile in sé e soprattutto a noi l’insieme dell’essente nella sua totalità? Noi possiamo tutt’al più, pensare la totalità dell’essente nell’«idea», e, formatala così nel pensiero, negarla e «pensarla» negata[80]. Certo, su questa strada noi acquistiamo il concetto formale[81] del niente così formato: non mai, tuttavia, il niente stesso[82]. Ma il niente è niente, e tra il niente «vero[83] e proprio» e quello da noi formato[84] può non sussistere differenza solo a patto che il niente rappresenti la perfetta indifferenza[85]. Il «vero e proprio» niente, tuttavia, non è qui, di nuovo,  quel surretizio[86] concetto contradittorio di un niente che è? – Ma basti con le obiezioni dell’intelletto che han trattenuta fin qui la nostra ricerca, la cui legittimità può essere provata soltanto per mezzo di una esperienza fondamentale[87] del niente.

   Tanto è sicuro che noi non abbracciamo mai assolutamente la totalità[88] dell’essente in sé, altrettanto è pur certo che noi ci troviamo posti nel bel mezzo dell’essente[89] che, in qualche modo, si scopre in quella totalità. Infine, c’è pure una differenza essenziale tra abbracciare la totalità[90] dell’essente in sé, e il sentirsi[91] in mezzo all’essente nella sua totalità: quello è fondamentalmente impossibile, questo avviene in permanenza nella nostra esistenza.[92]

   Sì: quando noi, nel quotidiano affacendarci, ci attacchiamo esclusivamente a questo o quell’essente, sembra come se ci fossimo perduti[93] in questo o quel cerchio dello essente. Ma, per quanto possa apparire frantumata la vita quotidiana, essa mantiene pur sempre l’essente in una «unità della totalità», sia pur questa nell’ombra. Anche quando (anzi proprio allora) noi non siamo particolarmente occupati dalle cose e da noi stessi[94], ci viene addosso questo «tutto», per es. nella noia[95] propriamente detta. Essa è ancora lontana finché quel che ci annoia è questo libro o quello spettacolo, quella occupazione o questa oziosità. Essa affiora quando «a uno prende la noia». La noia profonda, che si insinua serpeggiando nelle profondità della nostra esistenza come nebbia silenziosa[96], stringe insieme tutte le cose, gli uomini e l’individuo stesso con esse, in una singolare[97] indifferenza. Questa è la noia che rivela l’essente nella totalità.

   Un’altra possibilità di tale rivelazione può offrirla la gioia[98]che ci viene dalla presenza dell’esistere di un essere amato (non dalla sua persona semplicemente).

   Un tale stato d’animo per cui uno «è così o così», gli permette di sentirsi in mezzo all’essente in una totalità che tutto lo penetra. Questa disposizione[99] d’animo in cui ci si trova, non soltanto svela a suo modo l’essente nella totalità, ma questo disvelamento[100] è insieme – ben lungi da un semplice accidente – l’evento fondamentale[101] del nostro essere esistenziale.

   Quelli che noi chiamiamo «sentimenti» non sono un passeggero accompagnamento del nostro modo di pensare o di volere, né un semplice stimolo che porti ad un tal modo, e neppure una semplice situazione di fatto a cui noi reagiamo così e così. Se non che, proprio mentre le disposizioni[102] ci conducono per tal modo innanzi all’essente nella totalità, esse ci nascondono, anche, il niente che cerchiamo; e adesso saremo ancora meno dell’opinione che la negazione dell’essente nella totalità, rivelatorsi per mezzo delle nostre disposizioni, ci ponga innanzi al niente. Simile cosa portebbe conseguentemente accadere soltanto in una disposizione originaria,[103] che, conformemente alla sua più propria capacità, ci svelasse il niente.

   Si verifica realmente nell’essere esistenziale dell’uomo un tale stato, in cui egli sia portato innanzi al niente stesso?[104]

   Esso può verificarsi realmente e – sebbene abbastanza di rado[105] – soltanto in momenti di quella disposizione[106] fondamentale che è l’angoscia[107] (i). Con questa noi non intendiamo quell’ansietà abbastanza frequente[108], la quale in fondo appartiene a quel senso del pauroso che s’incontra anche troppo facilmente. L’angoscia è fondamentalmente diversa dalla paura. Noi ci impauriamo sempre di questa o quella cosa determinata, che per questo o quel determinato rispetto ci minaccia. L’aver paura di… è sempre anche paura per qualcosa di determinato. E poiché della paura è propria questa limitazione del suo oggetto e del suo motivo, l’impaurito resta preso nella sfera del pauroso in cui si trova. Nello sforzo di salvarsi dinanzi ad esso – innazi a questo determinato -, diventa malsicuro in rapporto ad ogni altro: «perde la testa» rispetto al tutto.

   L’angoscia non fa più nascere tale perturbamento: essa, anzi, apporta seco una caratteristica quiete.[109] Certo, l’angoscia è sempre angoscia di…, ma non di questo o quello; angoscia per…, ma non per questa o quella cosa. L’indeterminazione di ciò di cui e per cui noi ci angosciamo, non è mero difetto di determinazione, ma un’essenziale impossibilità di determinazione. Essa si presenta in un significato ben noto. Nell’angoscia – noi diciamo – «si è presi da un vago[110] sgomento». Si potrebbe domandare: «Chi?»[111] e «di che?». Di che, non si può dire: si prova sgomento di fronte al tutto. Tutte le cose e noi stessi affondiamo in una specie d’indifferenza.[112] Questo, tuttavia, non nel senso di un semplice dileguare; ma nel senso che, proprio nel loro allontanarsi[113] da noi, si rivolgono a noi. Qwuesto allontanarsi dell’essente nella sua totalità, che ci preme nell’angoscia, ci opprime. Non resta alcun sostegno; resta solo e ci piomba addosso – nello scomparire dell’essente – questo «nessuna cosa a cui appigliarsi».

   L’angoscia rivela il niente.[114]

   Nell’angoscia noi «siam sospesi». Meglio: l’angoscia ci tien sospesi, perché porta l’essente nella sua totalità a scomparire. E questa è la ragione per cui noi stessi – questi essenti umani – in mezzo all’essente scompariamo con esso a noi stessi. E però, in fondo, non «tu» e «io», ma «si»[115] è presi da sgomento. Soltanto il puro essere esistenziale[116], nellondeggiamento di tale sospensione che non può afferrarsi a niente, è quel che resta.[117]

   L’angoscia ci serra alla gola. Scomparendo l’essente nella totalità, e poiché il niente ci stringe da ogni lato, ogni tentativo di dire «è» tace alla vista di lui. Che noi nella vaga inquietudine dell’angoscia spesso cerchiamo di rompere il vuoto silenzio col parlare a vanvera[118], è soltanto una prova della presenza del niente.

   Che l’angoscia sveli il  niente, lo constatiamo noi stessi immediatamente appena se ne va. Lo sguardo, ancora fresco del ricordo, si rasserena, e noi siamo costretti a dire: di che e perché ci siamo angustiati? Non c’era «propriamente» – niente. E in realtà, il niente stesso – come tale – era là.[119]

   Con la determinazione fondamentale dell’angoscia noi abbiamo colto quell’evento dell’essere esistenziale[120], in cui il niente è manifesto, e da cui deve venir fuori la possibilità della questione:

   Come e che cosa è il niente?

 

 

SOLUZIONE DELLA QUESTIONE.

 

   Per lo scopo nostro si può dire che la soluzione della questione intorno al niente, almeno per la parte più essenziale, è già raggiunta, se si considera che essa rimane realmente posta. Sio esige, ora, che venga portato a compimento questo trasformarsi dell’uomo[121] nel suo essere esistenziale, ogni volta che l’angoscia ci prende, allo scopo di fermar bene quel niente che in essa si svela e attesta, e il come ciò avviene. A ciò si esige[122], prima, di metter da parte quelle proprietà del niente che non risultano appartenergli.

   Il niente si scopre nell’angoscia – ma non come essente[123]; e tanto meno vien dato come oggetto.[124] L’angoscia non è affatto una comprensione[125] del niente. Tuttavia il niente si fa per essa[126] e in essa manifesto, sebbene non come se il niente si mostrasse, per suo conto, «accanto» all’essente nella totalità immanente a tale sgomento. Noi diremo piuttosto: il niente viene incontro nell’angoscia in uno con la totalità dell’essente. Che significa questo «in uno con»?

   Nell’angoscia l’essente come totalità diventa vacillante.[127] In qual senso avviene ciò? L’essente non viene annullato nell’angoscia, sì che resti, così, il niente.[128] Come potrebbe ciò accadere se l’angoscia si trova nella più completa impotenza[129] dirimpetto all’essente nella sua totalità? Il niente, anzi, si attesta proporio, con e nell’essente, in quanto essente che ci sfugge e scompare nella totalità[130].

   Nell’angoscia non avviene nessun annullamento dell’essente totale in sé, e tanto meno noi compiamo una negazione dell’essente nella sua totalità per conquistare una buona volta il niente.[131] Anche astraendo dal fatto che all’angoscia, come tale, è estraneo il compito di un giudizio espressamente negativo, noi, con tale negazione che dovrebbe produrre il niente, arriveremmo sempre troppo tardi: il niente ci viene incontro già prima di quel giudizio.[132] Come dicemmo, ci viene incontro «in uno con» l’essente che scompare nella totalità.

   Nell’angoscia c’è un retrocedere innanzi a… che, in vero, non è più un fuggire, ma una fascinosa quiete. Questo «retro-innanzi» prende le sue mosse dal niente. Questo non trae a sé, anzi respinge essenzialmente.[133] Ma il suo respingere da sé è, come tale, un rimandare a ciò che, respingendo, fa scomparire: un rimandare all’essente che affonda nella totalità. Questo respingere che è un rimandare all’essente scomparente nella totalità, qual è quando nell’angoscia il niente preme l’esistenza, è l’essenza del niente: il nientificare. [134] Non è un annullare l’essente, né deriva da una negazione. Il nientificare non si può ridurre all’annullare e al negare.[135] Qui è il niente, proprio esso, che nientifica, e nientificare non è un accidente pur che sia, ma, in quanto respinge rimandando all’essente che scompare nella totalità, rivela questo essente, nella sua piena e fino allora nascosta straneità[136], come l’assolutamente altro – dirimpetto al niente[137].

   Nella chiara notte del niente dell’angoscia spunta la originaria rivelazione[138] dell’essente come tale: che è essente, cioè – e non niente. Questa aggiunta «e non niente» non è affatto un chiarimento aggiunto dopo al discorso, ma è, anzi, il precedente che rende possibile la rivelazione dell’essente in generale. L’essenza dell’originario niente nientificante è qui: esso porta l’essere esistenziale originariamente innanzi all’essente come tale. Solo sul fondamento dell’originario rivelarsi del niente, l’essere esistenziale dell’uomo può dirigersi verso ciò che è, e penetrare in esso[139]. Ma in quanto l’essere esistenziale per la sua essenza si riferisce all’essente, a ciò che esso non è e a ciò che esso stesso è (m), esso deriva già, pur sempre, come tale essere esistenziale, dal niente che si rivela.

   Esserci[140] vuol dire: trovarsi ritenuti interiormente al niente[141]. Tenendosi interiormente al niente l’essere esistenziale è già sopra e al di là dell’essente nella totalità. Questo essere «di là e sopra» l’essente noi lo chiamiamo Trascendenza[142]. Se l’essere esistenziale nel fondo della sua essenza non trascendesse, ossia – come ora possiam dire – non si tenesse interiormente sin dal principio nel niente, non potrebbe mai riferirsi all’essente, e però[143] neanche a se stesso. Senza un’originaria rivelazione del niente non c’è un essere se stesso[144], e non c’è libertà.

   Si è, così, ottenuta la risposta alla questione sul niente: esso non è un oggetto, né in genersale un essente; esso non si presenta per sé, né accanto all’essente, al quale pure inerisce. Il niente è la condizione che fa possibile la rivelazione dell’essente come tale per l’essere esistenziale dell’uomo. Il niente non dà soltanto il concetto opposto a quello di essente, ma appartiene originariamente all’essenza dell’essere stesso (n). Il nientificare del niente avviene nell’essere dell’essente.

   Si deve ora finalmente venire ad una considerazione già da troppo tempo tenuta indietro. Se l’essere esistenziale soltanto tenendosi dentro al niente può trovarsi in relazione all’essente, e però esistere, e se il niente divien manifesto soltanto nell’angoscia, non dobbiamo noi allora, necessariamente, per poter in generale esistere, star sospesi permanentemente in tale angoscia? Ma non abbiamo noi stessi riconosciuto che questa angoscia originaria è rara? Eppure noi tutti, anzitutto, esistiamo  ed esistiamo rapportandoci a quell’essente che non è noi stessi, e che siamo noi stessi – senza questa angoscia. Non è essa un’invenzione arbitraria, e non è un’esagerazione quel niente che le si è attribuito?

   Ma che si vuol dire con questa angoscia originaria che avviene soltanto in rari momenti? Niente altro che questo: il niente ci è dissimulato anzitutto e per lo più nella sua originarietà. In qual modo? In questo modo: perdendo noi stessi determinatamente e completamente nell’essente. Quanto più noi nel nostro affacendarci ci volgiamo a questo essente, tanto meno facciam sì che esso come tale scompaia, e tanto più ci rivolgiamo dal niente [145]. Altrettanto sicuramente, tuttavia, ci cacciamo dentro alla evidente superficialità dell’esistenza[146].

   E tuttavia, questo costante, per quanto ambiguo, rivolgersi dal niente è, in certi limiti, conforme al suo più proprio significato[147]. Esso – il niente nel suo nientificare – ci rimanda diritti all’essente. Il ninte nientifica in continuità, senza che noi, con quel sapere in cui ci muoviamo quotidianamente, sappiamo propriamente ciò che avviene.

   C’è nulla che più della negazione intimamente provi la permanente ed estesa, sebbene dissimulata, capacità rivelatrice del niente nella nostra esistenza? Essa deve appartenere all’essenza stessa del pensiero umano. La negazione non lo porta e aggiunge in niun[148] modo, da sé, il non, come mezzo di distinzione e opposisizione al dato, quasi per intercalarlo ad esso. E come può la negazione apportarlo da se stessa, questo non, quando essa, già per negare, deve presupporre un negabile? Ma un negabile, e da-negare, come potrebbe essere riguardato quale affetto del non, se ogni pensiero in quanto tale non mirasse già prima al non? Il non può diventare palese soltanto se la sua origine, il nientificare del niente in generale, e però[149] il niente stesso, vien sottratta all’oscurità che lo nasconde.

   Il non non nasce con la negazione, ma la negazione si fonda sul non generato dal nientificare del niente. Ed essa è soltanto un modo dell’atteggiamento negativo: del precedente atteggiamento, cioè, fondato sul nientificare del niente.[150]

   Si è, con ciò, dimostrata nei fatti fondamentali, la tesi dianzi avanzata[151]: il niente è l’origine della negazione, non viceversa[152].

   E se, così, vien fiaccata la potenza dell’intelletto[153] nell’ambito della questione intorno al niente e all’essere, allora si decide con ciò anche il destino della signoria[154] della «Logica» dentro la filosofia. L’idea della «Logica» si risolve nel vortice di un domandare più originario[155].

   La negazione, per quanto anche spesso e in molteplici guise[156] si mescoli, espressa o sottintesa, ad ogni pensiero, pur ci manca molto che essa, da sola, basti a testimoniare la capacità rivelatrice del niente propria, essenzialmente, dell’essere esistenziale. Poiché la negazione non può pretendere di essere né l’unico né il principale modo negativo in cui l’essere[157] esistenziale resta scosso dalla negatività[158] del niente[159]. Più profonda della semplice conformità alla negazione pensante è la durezza dell’azione ostile e l’asprezza dell’esecrare. Più responsabile è il dolore del ricusare e la inesorabilità del proibire. Più grave è l’amarezza del rinunziare.

   Queste possibilità dell’atteggiamento nientificante – forze, in cui l’essere esistenziale porta[160], non domina[161], il suo essere gettato nel mondo[162] – non sono affatto modi del semplice negare. Ma questo non impedisce ad esse di esprimersi nel no e nella negazione: ché, anzi, si tradisce meglio che mai, proprio per questo, il vuoto e l’ampiezza della negazione.

   Il fatto che l’essere esistenziale è impregnato di atteggiamenti nientificanti conferma la permanente, anche se oscurata, capacità di manifestarsi del niente, che soltanto l’angoscia scopre originariamente[163]. Ma, ecco: questa originaria angoscia vien nell’esistenza per lo più tenuta giù. Essa è là: soltanto, dorme. Il suo respiro dà un tremolio continuoall’essere esistenziale: lo avverti appena in chi è «angustiato»[164], ed è impercettibile addirittura nel «sì», «sì», «no», «no»[165], dell’uomo indaffarato; meglio che mai nell’uomo in raccoglimento; sicurissimamente nel fondo dell’audace, il quale proprio per questo si prodiga, per salvare la grandezza finale[166] dell’essere esistenziale. L’angoscia dell’audace non s’indugia neanche nell’opposizione alle gioie e comodi piaceri del vivere riposato. Essa sta – al di qua di tali opposizioni – in intima lega con la serenità e amabilità dell’aspirazione creatrice[167].

   L’angoscia originaria può ogni momento destarsi nell’essere esistenziale: non ha bisogno, per questo, di nessun straordinario avvenimento che la svegli. Alla profondità della sua potenza corrisponde l’inezia che basta ad occasionarla. Essa sta sempore per balzar su, e sol di rado scatta per darci in preda all’ondeggiamento.

   Il trovarsi l’essere esistenziale tenuto dentro al niente, fondato sull’angoscia nascosta, fa dell’uomo la sentinella del niente. Noi siamo così limitati che neppure siamo in grado di portarci, con un atto di volontà veramente conchiusivo, all’origine, davanti al niente. Tanto profondamente la tendenza a limitare è insita nell’essere esistenziale, che la nostra libertà si inibisce il limite[168] più vero e più profondo[169].

   Il trovarsi l’esistente [170] tenuto dentro al niente, fondato sull’angoscia nascosta, è il superamento dell’essente[171] nella totalità[172]: la trascendenza.

   Il nostro problema intorno al niente ci deve condurre innanzi la Metafisica stessa[173]. Il nome «Metafisica» vien dal greco τὰ μετὰ τὰ φυσικὰ. Questo strano titolo venne più tardi interpretato come indicazione del problema che va μετὰtrans – «al di sopra» dell’essente come tale. Metafisica è portare il problema «oltre e sopra» l’essente per trattenerslo in quanto tale e nella totalità e comprenderlo.

   Nel problema intorno al niente si verifica un tale portarsi oltre e sopra l’essente come essente nella totalità. Un tal problema è dimostrato, così, come metafisico.

   Di problemi di tale specie noi demmo in principio una doppia caratteristica: in primo luogo, ogni problema metafisico comprensde già il tutto della Metafisica; in secondo luogo, in ogni problema metafisico l’esistenza del problemante è presa pur sempre dentro nel problema.

   Sino a qual punto il problema del niente abbraccia e comprende la Metafisica intera?[174]

   Del niente parla la Metafisica sin dall’antichità in una sentenza che può aver molti sensi: ex nihilo nihil fit, dal niente vien niente. Sebbene nell’esame della sentenza il niente stesso non divenga mai propriamente un problema, pure esso porta ad espressione la concezione fondamentale dell’essente insita nel modo in cui di volta in volta[175] si riguarda il niente. L’antica Metafisica[176] intende il niente nel significato di non-essente, ossia della materia informe che non si può trasformare da se stessa in un essente formato, sì da presentare un aspetto (εἶδος[177]), mentre l’essente è una formazione formantesi, che si presenta come tale nella forma (all’aspetto). L’origine, il diritto e i limiti di questa comprensione dell’essere vengono tanto poco indagati come il niente stesso.

   La dogmatica cristiana, invece, nega la verità della sentenza ex nihilo nihil fit, e dà quindi al niente un significato diverso, nel senso della inesistenza radicale dell’ente estradivino: ex nihilo fit ens creatum. Il niente diventa ora il concetto opposto all’ente[178] vero e proprio, al Summum Ens, a Dio come Ens increatum. Anche qui la rappresentazione del niente rimanda alla concezione che serve di fondamento all’ente. Ma l’indagine metafisica dell’ente si tiene al livello medesimo del problema del niente. I problemi, come tali, dell’essere e del niente vengono entrambi tralasciati. Non preoccupa, quin di, neanche, la difficoltà che, se Dio produce dal niente, bisogna bene che egli possa entrare in relazione con il niente[179]. Ma, se Dio è Dio, egli non può conoscere il niente: l’«assoluto» esclude da sé ogni nullità.

   Questo rozzo accenno storico dimostra il niente come concetto opposto dell’essente vero e proprio, ossia come la sua negazione. Ma se il niente diventa in qualche modo un problema, allora questo rapporto di opposizione non soltanto induce ad una più chiara determinazione, ma risveglia la vera e proporia questione metafisica intorno all’essere dell’essente. Il niente non resta per l’essente l’indeterminato «star di contro», ma si scopre come appartenente all’esseredell’essente stesso.

   «Il puro essere e il puro niente è, dunque, lo stesso». Questa sentenza dello Hegel (Scienza della Logica, lib. I, Opp. III, p. 74) è giusta. Essere e niente coincidono, ma non perché entrambi – guardati dal punto di vista del concetto hegeliano del pensiero – concordano nella loro indeterminatezza[180] e immediatezza; ma perché l’essere stesso è limitato essenzialmente, e si rivela soltanto nella trascendenza dell’essere esistenziale che si trova tenuto dentro al niente[181].

   Se, d’altronde, il problema dell’essere come tale è il problema più comprensivo della Metafisica, allora, quello intorno al niente si mostra di una tale specie che abbraccia la Metafisica intera. Ma il problema del niente comprende la Metafisica intera anche in quanto esso obbliga a fermarsi innanzi al problema dell’origine della negazione[182], ossia, in fondo, innanzi al problema della legittimità del predominio della «Logica» nella Metafisica.

   L’antica sentenza ex nihilo nihil fit riceve, allora, un altro significato riguardante il problema stesso dell’essere, e vuol dire: ex nihilo omne ens qua ens fit. Nel niente dell’essere esistenziale l’essente nella totalità[183] perviene dapprima a se stesso secondo la sua più propria possibilità, ossia in modo limitato.

   Sino a qual punto, allora, il problema del niente, se è un problema metafisico, ha esso accolto in sé la nostra esistenza problemante?[184]

   Noi caratterizzammo il nostro essere esistenziale, qui e ora sperimentato, come essenzialmente determinato dalla scienza[185]. Se il nostro essere esistenziale, così determinato, è posto nel problema del niente, allora esso deve, di necessità, esser diventato, attraverso questo problema, esso[186] stesso problematico. L’essere esistenziale dello scienziato ha la sua semplicità e precisione in questo: che esso si riferisce in modo eminente all’essente stesso e unicamente a esso. La scienza vorrebbe, con gesto di superiorità[187], misconoscere il niente. Ma adesso, nel problema del niente, si vede bene che quest’essere esistenziale dello scienziato è possibile soltanto se esso si tiene sin dal principio dentro al niente. Esso intende sé, in ciò che esso è, soltanto se non misconosce il niente[188].

   La pretesa spassionata[189] superiorità della scienza diventa una cosa da ridere se essa non prende sul serio il niente. Solo in grazia del niente rivelatore la scienza può fare oggetto della sua ricerca l’essente. Soltanto se la scienza trae dalla Metafisica la sua esistenza[190], è in grado di adempiere sempre di nuovo il suo compito essenziale, che non consiste nell’ammassare e ordinare conoscenze, ma nel dischiudere con sempre nuove ricerche l’intrero orizzonte della verità[191] della natura e della storia.

   Unicamente perché il niente si svela nel fondo dell’essere esistenziale può sorgere entro di noi il senso della piena straneità dell’essente; e soltanto se questa straneità ci angustia, l’essente sveglia e tira a sé lo stupore[192]. E solo dallo stupore – ossia dal rivelarsi del niente – sboccia[193] la domanda: Perché? Solo in quanto un tale perché è possibile, noi possiamo in modo determinato far questioni[194] di motivi e motivare. E solo perché noi possiamo porre in questione e motivare, alla nostra esistenza si trova dato in sorte il compito [195] di ricercare.[196]

   Il problema del niente ci mette – noi stessi che facciam questione – in questione. Questa è bene[197] una questione metafisica.

   L’essere esistenziale umano[198] può riferirsi all’essente[199] soltanto se si tiene dentro al niente[200]: l’uscir fuori dall’essente[201], per vederlo dall’alto[202], avviene nell’essenza dell’essere esistenziale. Questa uscita[203] è la Metafisica stessa. Ed ecco che la Metafisica appartiene alla «natura dell’uomo». Essa non è una specie di filosofia per le scuole, né un campo di escogitazioni arbitrarie. La Metafisica è l’accadimento fondamentale nell’essere esistenziale. Essa è l’essere esistenziale stesso.

   E poiché la verità della Metafisica abita in tale abissale profondità[204], essa si trova nella massima vicinanza alla possibilità, che costantemente l’insidia, dei più profondi errori[205]. Nessun rigore, quindi, di una scienza arriva alla serietà della Metafisica. E la filosofia[206] non può mai venir misurata col metro dell’idea della scienza[207].

Se la questione intorno al niente è stata realmente da noi svolta coinvolgendovi noi stessi, si può affermare, allora, che noi non abbiamo condotta innanzi a noi dal di fuori la Metafisica. E neppure ci siamo «trasferiti» in essa. Noi non possiamo trasferirci in essa, poiché noi – in quanto esistiamo[208]già stiamo sempre in essa: φύσει γάρ, ὦ φίλε, ἔνεστί τις φιλοσοφία τῇ τοῦ ἀνδρὸς διανοίᾳ (Platone, Fedro 279a)[209]. Il filosofare accade, in certo modo, in quanto esiste l’uomo.

   Filosofia – ciò che noi così chiamiamo – è soltanto un mettere in moto la Metafisica,m onde essa perviene a se stessa ed ai suoi compiti esplicitamente[210]; ed essa si mette in moto soltanto per mezzo di una peculiare immersione della propria esistenza nelle possibilità[211] fondamentali dell’essere esistenziale nella totalità[212].

   Momenti decisivi per tale immersione sono: in primo luogo, far posto all’essente nella totalità; in secondo luogo, lasciarsi andare nel niente, ossia liberarsi dagli idoli[213] che ognuno ha, e per i quali ognuno tenta di evadere; infine, seguire l’ondeggiamento[214] della sospensione, per tornar costantemente ad agitare la questione fondamentale della Metafisica, a cui costringe il Niente:

   Perché, infine[215], l’essente[216] e non piuttosto niente?[217]

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Osservazioni*

 

     Pag. 4 (a). – Ottimo questo preambolo. Non si parlerà della Metafisica in generale (astrattamente), ma di un problema metafisico determinato, il quale, quando è concreto, di reale interesse, ha due aspetti fondamentali: da un lato, involge il concetto della Metafisica tutto intero; dall’altro, impegna, si può dire, personalmente, colui stesso che pone il problema (il quale diventa, così, problema a se stesso: ossia esso stesso un problema). -  A guardar bene in fondo, la Metafisica è stata sempre così: il pensiero ha sempre cercato, al di là delle cose nella loro immediata presentazione, un principio che valesse a render ragione, non solo del mondo come altro da noi, ma di noi anzitutto che ci poniamo un tal problema. Quando non s’è visto, o s’è trascurato, questo secondo aspetto, si sono avute le varie forme della Metafisica dogmatica, in cui il problema del reale è posto come se esso non riguardasse, in primo luogo, la realtà di noi a noi stessi. La Metafisica, invece, che tiene ciò presente, si può a buon diritto denominare critica. È merito dell’esistenzialismo di aver messo in rilievo questo concetto, e di aver invitato ad abbandonare definitivamente le questioni su l’essere e il non-essere in generale (se pur mai  i veri pensatori furono presi in tale vuota astrattezza), e di aver posto esplicitamente che il vero e concreto essere, almeno per noi, è dato nell’esistere suo. Sarà da vedere, poi, se l’esistenzialismo (per noi, questo di Hidegger) resta fedele a questo suo programma. – Metafisica è termine equivoco ancor oggi: in un senso, equivale a quello stesso, oggi più comune (e più giusto, in quanto implica già la posizione critica , su accennata), di filosofia; e vuol dire, allora, riflessione del pensiero su la realtà in generale, al di là della sua presentazione empirica (e talora in apparente contraddizione con essa: «il mondo rovesciato» di Hegel); ma, nella filosofia così intesa, si può distinguere un problema specificamente metafisico, e sarà quello più tradizionale, riguardante la realtà del «mondo» come esistenza ch’è altra da noi, altra da quella di noi a noi stessi (anche se le due esistenze siano, poi, destinate a formare un unico problema).

     Pag. 5 (v. nota [12]) (b). – Con queste avvertenze il lettore può giudicare al giusto la critica corrente che suol farsi di questo D. heideggeriano. Si dice che è già contradittorio il concetto di un esistere che è esistere a se stesso, e tuttavia è «impersonale». Sì, ciò urta indubbiamente il nostro modo di pensare (H. critica l’Io penso di Kant, non solo per l’astrattezza di quel pensare, ma anche per il soggetto che gli prepone). D’altra parte, è pur da riconoscere che i critici scambiano troppo spesso il concetto (che non può non essere trascendentale) della personalità con quello meramente empirico della persona, sì che la loro critica è valida solo a metà.

     Pag. 5 (c). – Certo, nel prevalere sempre maggiore dell’interesse pratico, è tramontata l’idea (di tradizione platonico-aristotelica) della Metafisica come «scienza regina»[218]. Ma è da vedere, da un lato, se quella «scienza di tutte le scienze» c’è realmente (Kant), anzi se mai c’è stata in tal senso; dall’altro, se le scienze, pur in quell’apparentemente «sparpagliata molteplicità», abbandonando le astrattezze della Metafisica scolastica (di carattere meramente logico-discorsivo), non perseguano un’idea più concreta per una nuova metafisica dell’esistenza. Il lamento di H., preso così, sa di antiquato (ma si spiega: il suo criticismo, diversamente da quello kantiano, non è gnoseologico-epistemologico: vuol essere gnoseologico-metafisico immediatamente).

     Pag. 6 (d). – A noi piacerebbe di più dire che nelle scienze si tenta di approssimarsi sempre più all’esistenza: intendi, a quell’esistenza (del mondo) ch’è il presupposto comune dell’esistenza di ogni cosa che sia oggetto della loro indagine. Lo H., invece, ancora legato al vecchio concetto della Metafisica, sia pure rinnoivato e rammodernato nella scuola fenomenologica, incanala anche il problema della scienza in quello dell’essenza.

     Pag. 7 (v. nota[27]) (e). – Senza ricorrere a questa veduta pragmatista e mantenendo il carattere teoretico della scienza, si può restare nell’orbita del criticismo kantiano col riconoscere che la scienza dà una libera interpretazione del mondo dei fenomeni, fermo restando il presupposto esistenziale, di cui alla nota precedente (l’inconoscibile kantiano).

     Pag. 8 (f). – Viene, così, introdotto il problema del niente, ch’è l’argomento proprio di questa trattazione. Nota il modo alquanto fromalistico, discorsivo, con cui viene introdotto; e anche lo scambio fra il concetto del niente con quello fondamentalmente diverso (salvo una riduzione che qui manca, ma di cui si fa un accenno più in là), di altro. – Noi diremmo: l’esistenza (del mondo) è il presupposto (dogmatico) di ogni scienza, la quale, quindi, non vuol saperne di quell’«altra esistenza» (di noi a noi stessi), che suscita il problema del niente.

     Pag. 10 (g). – Su questo concetto del niente lo H. ritorna, come si vedrà, a più riprese (cfr. pp. 45 ss. [del Poscritto (Nachwort) aggiunto nel 1943 e riveduto nel 1949], 130 ss. [L’essere e il niente, titolo aggiunto dal curatore sta in Lettera sull’«umanismo» (Estratti), 1946 poi riveduto e ampliato nel 1947, riportato nell’Appendice del volumetto della Nuova Italia), sia per difendersi dall’accusa di «nullismo», sia per chiarirlo ulteriormente.. Nella Prefazione abbiamo accennato alle due direzioni diverse che prende, in lui, questo concetto. Queste due diverse direzioni noi ameremmo conciliarle, non estrinsecamente,ma interiormente, così: 1°. – Il concetto del niente pone, anzitutto, il concetto di un’esistenza, quella di solo fatto, ch’è, per sé, esistenza finita, contingente (l’esistenza del mondo e di tutto ciò che al mondo appartiene); 2°. – La nullità di tale esistenza implica un giudizio di valore, e però l’affermazione di un altro senso dell’esistenza, diversa da quella di solo fatto e a essa superiore, in virtù della quale anche quella di fatto può divenire oggetto di valutazione; 3°. – Questa dualità implica un terzo concetto di esistenza, in virtù del quale cessa il contrasto di fatto e valore, divenendo il fatto manifestazione immediata del valore stesso. A questo giro di pensiero non mancano appigli, come si vedrà, nella trattazione che H. fa del problema del niente: quel che manca in lui è il concetto di esistenza come valore, ossia come spiritualità, onde il dogma delal Creazione, attorno al quale gira anche il suo pensiero (cfr. la domanda finale di questa Prolusione, e la spiegazione che ne dà a p. 86), riesce a lui impenetrabile nel suo profondo e ricco significato.

     Pag. 15 (v. nota [n. 70]) (h). – Quel che lascia pèerplessi è quell’idea di «struttura del D.», dove l’esistenza nel mondo e l’esistenza di noi a noi stessi, anzicché [sic] in qualche modo dialettizzarsi (in una dialettica esistenziale, s’intende, non meramente logica, come quella idealistica di soggetto-oggetto), tendono a «neutralizzarsi» nell’unico esistere del D., il quale, per tal modo, oscilla fra il sé e l’altro, e non riesce, così, a farsi veramente del suo esistere un problema. Nella relazione di sé al mondo è assente, infatti, ogni senso di opposizione, sì che, se del mondo, come vuole H., non si può dire che esiste, neppure il D. può dire, di sé, ch’esiste.

     Pag. 18 (i). – Noi diremmo: l’angoscia è quel sentimento puro (a priori, direbbe Kant), che si accompagna al distacco dal mondo (messo, così, quasi «fra parentesi»), quando, ripiegandoci su noi stessi, avvertiamo quel mondo, a cui pur ci legano gl’interessi della vita, come un’esteriorità alle ragioni superiori e più profonde della nostra esistenza. S’intende: questo è un modo di pensare alieno, più ancora che dalla lettera, dallo spirito del testo. D’altronde, a non ragionar così, c’è rischio che la nota più originale del pensiero heideggeriano, cioè la scoperta del senso originario e fondamentale del niente rivelato nell’angoscia (nel distacco), si risolva e svanisca in un vuoto che non si sa di che riempire. Nel Kierkegaard era altra cosa, e più sostanziosa: il senso della lotta, a cui è chiamato l’uomo, fra la carne e lo spirito, l’origine del peccato e insieme il senso della libertà interiore, condizionata nell’uomo dall’esteriorità. Questo niente, dunque, se non ha da essere un sentimento vuoto e indeterminato, corrisponde al concetto dianzi criticato della mera negatività logica, insieme a quello, solo apparentemente opposto, del Tutto, – dovrà esplicarsi in un giudizio di valore, che, mentre svaluta l’esistenza nella sua esteriorità o mondanità (mera esistenza di fatto), ponga e riconosca il diritto all’esistenza di un’altra realtà, ch’è pura spiritualità. In questo modo, dando all’intuizione teologico-religiosa del Kierkegaard un fondamento filosofico, si fonda anche la sostanziale (e sostanziosa) problematicità dell’esistenza, in quanto esistenza dell’uomo, che avverte non esaurite nella sua mondanità le ragioni della sua esistenza. Come, se no, e perché quel ripiegarsi su se stesso, nella propria interiorità? Questo atto, che, certo, non sopprime il mondo, ma lo mette tutto (nella sua totalità) fra parentesi, non è già, in certo modo, nel suo «trascendimento», fuori del mondo?

     Pag. 22 (v. nota [n. 126]) (l). – Secondo noi, se al D. appartiene, come struttura interna, il senso del contrasto fra il e l’altro da sé, e se il niente esprime il senso della nullità di quell’esistenza di mero fatto ch’è il mondo, vuol dire che il D. cerca un Altro che non sia estraneo a se stesso, e sia, insieme, la ragione risolutiva (l’Entschlossenheit, ch’è il Grund ultimo) del contrasto. Per lo H., invece, il contrasto si risolve, prima (in un primo tempo), in disfavore del (il senso del nulla della propria esistenza, ch’è esistenza finita, suggellata e autenticata dalla morte); poi (in un secondo tempo), in favore dell’altro, che, tuttavia, rimanda, anche per lui, all’Altro, il quale, similmente, non è un’estraneità al D., ma la ragion d’essere ulgtima di esso e dell’essente in generale (l’Essere, come si vedrà).

     Pag. 23 (m). – Mera identità e differenza? Ma, allora, siamo ancora nel dominio della logica! Qui mi pare il «tallone d’Achille» di questa Metafisica heideggeriana che vorrebbe essere esistenziale, ma resta, in fine, prigioniera (attraverso la fenomenologia husserliana) della Metafisica classica, ossia dogmatica: contro il suo stesso assunto, per il quale il problema metafisico (come s’è visto) involge il problema di colui stesso che se lo pone: che non è un problema di essere semplicemente (oggetto del pensiero logico), ma di esistere. Se no, perché il D.? Che porta esso di nuovo nella Metafisica tradizionale?

     Pag. 24 (n). – Siamo, di nuovo, al punto più dubbio, più oscuro: il niente, come nientificare, è nell’essenza del D., ossia dell’esistere, ovvero è nell’essenza dell’Essere? Che avvenga «nell’essere dell’essente», non decide. Se è nell’essenza del D., allora il niente è problema che riguarda, propriamente, non l’Essere in generale, ma, originariamente, il senso che ha l’essere, in quanto esistere, in noi. Se, invece, è nell’essenza dell’Essere, allora siamo ancora allo spinoziano Omnis determinatio est negatio, ch’è un principio logico, non esistenziale. D’altronde, se del niente non  si vuol fare un fatto, quasi un’entità, esso si risolve nell’atto stesso del nientificare: ora questo atto è comprensibile nel D., che presuppone già qualcosa (il mondo) per trascenderlo, non nell’Essere, che, come tale, non «nientifica», bensì «entifica».

     Pag. 31 (v. nota [n. 164]) (o). – Se così vuol dire, resta, allora, da domandarsi: questo vero concetto del niente (non astratto, ma concreto) non sarà, dunque, il concetto di un’esistenza diversa e superiore, in confronto alla quale l’esistenza dell’essente, come solo fatto di esistere, è come un non-esistere? – Ma, allora, non è la limitatezza dell’essente quel che decide contro la logica hegeliana, bensì il potere nientificante del D. (che ha preso il posto, qui, della negatività del pensiero in generale). La superiorità della Metafisica esistenziale a quella meramente logica è evidente, ma a un patto: che non si dinuisca la pienezza di significato dell’esistenza, riducendola al solo fatto (positivismo assoluto): se no, ogni esistenzialismo crolla innanzi all’affermazione, ancora idealistica, che il fatto non ha senso, non esiste, se non nel pensiero, che ne vede i limiti, e però lo trascende.

 

 

 

 

 

 




[1] Lo scritto contiene il testo, riveduto e ampliato con un Poscritto, della pubblica Prolusione tenuta 24 luglio 1929 nell’Aula Magna dell’Università di Freiburg i[m]. Br.[isgovia]. Verso la fine dello stesso anno esso fu pubblicato, e poco dopo tradotto in francese, giapponese, italiano, spagnolo, portoghese, inglese e turco. La terza edizione, immutata, apparsa nel 1931, è da gran tempo esaurita. [Nota dell’edizione del 1943]. – Una quinta edizione è apparsa nel 1949, nella quale precede un’Introduzione scritta posteriormente, e però [perciò] messa qui dopo il Poscritto.

[Osservazione di Menon: Heideggere è un mistico rovesciato, un credente]. [La traduzione del testo e le note sono quelle di Armando Carlini (1878-1959) nell’edizione La Nuova Italia, Firenze, terza ristampa, gennaio 1967, pp. XII-140; in corsivo e nelle inserzioni in corsivo tra parentesi quadre è riportato il commento che Gian Giacomo Menon fece in classe agli studenti della III A del liceo classico Jacopo Stellini di Udine durante l’anno scolastico 1967-1968. L’articolo determinativo «la» viene messo tra parentesi perché è assente nell’originale tedesco]

[2] v. pag. 10

[3] Concetto di alèteia, della verità, l’essere trova in me il veicolo per rivelarsi (ἀλήθεια da λανθάνω)

[4] v. pg. 3

[5] v. pg. 11

[6] v. pg. 20

[7] Il filosofo non si accontenta della scorza, ma vuole indagare l’oltre (μετά)

[8] Intelligenza dell’uomo quotidiano, del non-filosofo che vede il mondo come è (la scorza)

[9] Vuole cioè scandagliare il rovescio del fenomeno. La filosofia è per sua natura metafisica.

[10] Ponendo in questione l’essere, pone in questione anche il suo essere

[11] Situazione, punto di vista

[12] Scienziati

[13] Dasein: termine oramai famoso di questa speculazione heideggeriana, nel quale si concentrano tutte le sue chiarezze e oscurità insieme: è, infatti, in essa, problema centrale. Alla lettera, vale esserci, ma si tolga al ci (da) ogni riferimento ristrettivamente spaziale, e s’intenda, quindi, come pura constatazione della realtà dell’essere nella sua effettività (Faktizität). In quanto, poi, del  D. si studia la struttura interna, come quella che, sola,  dà un  senso di realtà e concretezza al mondo dell’esperienza (ed è perciò trascendentale rispetto a questa), lo si può tradurre acconciamente con essere esistenziale (ed «esistenziali» sono chiamate, infatti, le categorie in cui il D. si articola: già di qui si vede lo sviluppo in senso metafisico che H. porta al criticismo kantiano). – Ma si badi bene: D. è l’esistere o l’esistenza (la categoria delle categorie, per l’appunto), non «un esistente». O meglio: il D. è, sì, sempre anche un esistente (onticamente considerato secondo la terminologia che H. ha ereditato dalla scuola fenomenologica dello Husserl: noi potremmo dire, col termine kantiano, quasi equivalente «empiricamente»): lo H., anzi, a questo proposito, sembra disposto a considerare il D. come il vero e proprio esistente, in quanto solo in esso e per esso si rivela il significato dell’esistenza. Certamente, anche tutte le altre cose, fatti o avvenimenti, «esistono» in questo che diciamo «il mondo»; ma la loro esistenza è mera presenza aqualcuno, non presenza a se stessi: esistenza «bruta», si può anche dirla, che aspetta di essere illuminata dalla riflessione analitica (ontologica). – Si pone qui, allora, una questione abbastanza spinosa (anche per H.): questo D., in cui l’esistenza si fa problema e si chiarisce, è l’uomo, sono io (tu, noi)? Lo H. risponde che,certamente, il D. è sempre un uomo, un io (tu, noi), ma egli aggiunge che queste sono determinazioni ontiche (empiriche), non riguardanti il concetto puro dell’esistere (sono determinazioni preontologiche, anche se accennano alla condizione privilegiata che ha l’uomo, l’io, fra tutti gli altri esistenti, di divenire il «luogo» proprio del problema ontologico (b).

[14] Le scienze si occupano dell’essere, solo che si perdono in ricerche che riguardano l’aspetto parziale dell’essere (?) lontane dalla verità.

[15] Nel senso greco di πάθος: noi diremmo, la determinazione (empirica) di noi scienziati.

Esistentivo = l’uomo nella sua struttura concreta. H. si occupa della esistenza. La ricerca di Jaspers non riguarda ciò che è esistenziale, ma ciò che è esistente. Esistenziale = ciò che riguarda l’uomo nella sua struttura esistenziale. Valore passivo dell’essere scienziato. Accidente, caso, non è una componente necessaria, è un fatto puramente accidentale. Condizionatura (?) che dalla scienza deriva atteggiamento passivo.

[16] Sta per «oggetto», dal latino sub-stantia, greco ὑποκείμενον

[17] Riguarda un’attività pratica (nel senso che serve per) utile a raggiungere un determinato risultato (da Fichte, il cambiamento, l’evoluzione)

[18] Preferisco tradurre letteralmente il Seiendes: esso tramezza fra l’ontico [che è accessibile all’empiria; l’esistente = l’essere nella sua realtà ontica; Essere = l’essere nella sua realtà ontologica] e l’ontologico: è l’esistente (empirico) in cui traluce il raggio dell’essere, che ne dà l’essenza (termine tradizionale della Metafisica classica, il «che cosa è», in sé e per sé). Nella scuola fenomenologica ritorna questo termine, ma come il trascendentale dell’esistente, onde anche il concetto di «fenomeno» vien mutato da quello volgare (che ha spesso anche in Kant, in quanto lo oppone all’inconoscibile noumeno) in quello di «manifestazione» o «rivelazione» dell’essere, ossia in ciò che è, anzi, di più conoscibile in ogni cosa (ciò è anche conforme al significato originario della parola greca).

[19] V. pg. 35 Schelling. Natura è ciò che non ha coscienza di sé; storia = mondo dei soggetti (l’uomo).

[20] Due i possibili atteggiamenti filosofici: o la realtà è costruita dal pensiero o il pensiero è creato dalla realtà

[21] Parola trovata a pag. 8 (Umanesimo) del  Nuovo sommario di filosofia per i licei classici (vol. II) di E. P. LAMANNA, Le Monnier, Firenze, 1964

[22] La rigorosità della mente si chiama esattezza (e così per le altre scienze naturalistiche)

[23] Tutte le scienze sono rigorose e si distinguono in scienze della natura e scienze dell’uomo

[24] L’azione pura e semplice come il camminare

[25] L’azione che si concreta in qualcosa di verificabile

[26] Com’è noto, la categoria fondamentale del D., per H., è la Sorge (cura o premura, attività in genere, che ci porta a interessarci delle cose: le cose, anzi, sono, per lui, fondamentalmente, espressione di questi interessi pratici, nel senso più generale). La scienza «tematizza» nelle cose la loro oggettività.

[27] L’essente stesso

[28] Atteggiamento realistico; non tiene conto di quello che sostiene il Lamanna [cit.], III vol., 1967, alle pp. 165 (capitolo su critica della scienza, reazione al positivismo, rifioritura dello spiritualismo in Europa tra fine ‘800 e inizi ‘900) e 249 (capitolo sulla nuova scienza, la nuova fisica, geometrie non euclidee, teoria della relatività, problema epistemologico, Circolo di Vienna e neo-positivismo logico, principio di indeterminazione di Heisenberg)

[29] V. Bacone: si vince soltanto obbedendo.

[30] Nota: è l’essere che, mediante la riflessione (del D.), rivela se stesso (non, tuttavia, a se stesso) nelle cose: ossia, le fa passare dall’ontico all’ontologico. Lo H. (in questo, poco kantiano) non è per l’attività sintetica, costruttrice dello spirito: ché qusto sa, per lui, d’idealismo, di soggettivismo (né gli basta l’oggettività dell’idealismo kantiano o postkantiano, se essa è pur sempre l’oggettività di una soggettività). – Da tener presente, tuttavia, che anche per lui le cose sono, in certo modo, una produzione dello spirito, in quanto oggetto della Sorge (v. nota prec.) (e).

[31] Già nell’aforisma baconiano era detto: Natura nonnisi parendo vincitur. Ma H. estende, poi, questo concetto, come vedremo (p. 42), sino alla nietzschiana «volontà di potenza» dell’uomo.

Bacone (v. II vol. del LAMANNA, cit.): l’uomo vince la natura solo obbedendo alle sue leggi (nisi parendo natura vincitur)

[32] Di sudditanza

[33] Finalizzazione del riferimento (riferimento finalizzato)

[34] Quest’irruzione è una metafora che rende bene il senso dell’atto che improvviso si accende alla luce dell’essere (che porta in sé), e illumina (di luce «riflessa»: Bacone, Vico) l’oscuro mondo dell’esistenza bruta. Tale atto, come H. dice più volte, è un atto di libertà, e libertà è trascendenza (trascendimento di quell’oscuro mondo di  bruta esistenza: di qui il significato, anche, del D. come esistenza nel senso etimologico, come l’atto di ex-sistere).

[35] Scientifica

[36] Cfr. Sant’Agostino: Illi qui audiunt quasi loquantur in nobis et nos discamus quodam modoquae docemus. Cfr anche Dewey p. 237 [del manuale Lamanna, cit.]

[37] Realtà

[38] A suo modo

[39] L’unità radicale è quella dell’atto del D.Atteggiamento: noi diremmo «punto di vista». – La triplicità vien ripetuta in quel che segue (ciò a cui, ciò di cui, ciò in cui).

[40] Il padre latino Fridegiso di Tours [VIII secolo – 834,  è stato un abate e filosofo francese di origine anglosassone. Discepolo di Alcuino di York, entrò nella scuola palatina francese nel 796. Fu poi abate a Tours, prima di diventare, nell’819cancelliere di Ludovico il Pio] scrisse un breve trattato dal titolo De nihilo et tenebris [che presentò ai nobili della corte carolingia di Aquisgrana nel marzo dell’anno 800]. In tale opuscolo sostiene che il niente esiste: «Ogni significazione è di ciò che esiste. Ma il niente significa qualchecosa. Dunque il niente è significazione di ciò che esiste cioè di cosa esistente». Commentando il passo di Matteo [6, 23]: «Se la vostra luce non è che tenebre, come saranno grandi le vostre tenebre» con la dottrina delle categorie, i concetti più alti della scala delle categorie (…) e incorporee, trae queste conseguenze: la grandezza appartiene alla categoria della quantità. Ma ogni quantità si predica accidentalmente di un soggetto che ha il titolo della sostanza. Dunque le tenebre, essendo suscettibili del più e del meno, sono un sogg[etto], una sostanza, un corpo, dunque essi sono qualcosa (cfr. Guido De Ruggero[Napoli 1888-Roma 1948, storico della filosofia, docente universitario, politico italiano]). Fridegiso di Tours dice che ogni nome designa qualche cosa, quindi la parola nulla deve avere un senso e designare una realtà (cfr. Étienne Gilson).

[41] La scienza non pone il niente, lo incontra, le è dato. Il niente può essere una res (det. positiva) o una non res (det. negativa). Rudolf Carnap [1891-1970], in quanto vuole eliminare la metafisica mediante l’analisi logica del linguaggio, porta come esempio di proposizione insensata una proposizione tolta da Che cos’è la metafisica? di Heidegger. Carnap considera H. come il modello di chi parla senza senso. Carnap accetta il niente scientifico come privazione di una qualità determinata. Parmenide: niente può essere totale, rimozione dell’essente nella sua totalità (accettato da Heidegger). Platone: il niente può essere parziale; alterità, sostituzione di un essere con un altro essere che non desidera (accettato da Bergson e da Carnap). Hegel à Heidegger = il non dipende dal niente; Parmenide = il niente dipende dal non.

[42] Dal punto di vista logico.

[43] È ciò che si trova nella contraddizione.

[44] Il problema qui posto da H. è di estrema importanza. Un precedente di esso è nel BERGSON, L’evolution creatrice (cap. IV, pp. 298 ss.), dove pure si vuol rispondere alla domanda: «D’où vient, comment comprendre que quelque chose existe?»; e, anche posto un principio, «comment, purquoi che principe existe-t-il, plutôt que rien?». Ma per il B. l’idea del niente è, poi, una pseudo-idea, la cui origine, in ciò che ha di positivo, è un motivo psdicologico (si sostituisce all’oggetto reale un altro oggetto immaginato o desiderato), oppure pedagogico (quasi un avvertimento che mette in guardia da un’affermazione erronea che uno potrebbe fare). Invece, «per uno spirito che seguisse puramente e semplicemente il filo dell’esperienza, non ci sarebbe mai il vuoto, il niente, neanche relativo o parziale: non esisterebbe la possibilità della negazione» (proprio al contrario dello Hegel, per il quale è la negazione che esprime la potenza dello spirito!). L’idea, in fine, di un niente assoluto, secondo B., vien fuori dal movimento dello spirito che passa dalla negazione di una cosa alla negazione dell’altra indefinitivamente, e crede, così, di poter pervenire alla negazione del Tutto, laddove questa, come negazione di tutte le cose, è «un’idea distruttiva di se stessa, la quale si riduce a una semplice parola; - ovvero, in ciò per cui è veramente un’idea, ha lo stesso contenuto dell’idea di Tutto». – Si sa che H. ha preso questo problema (insieme a quello connesso dell’angoscia, della temporalità, ecc.) dal Kierkegaard, nel quale ha un significato teologico-religioso, mentre egli ne fa una trattazione puramente metafisica. – Nell’attualismo del Gentile il problema è, in certo modo, presentito: l’atto dello spirito, in confronto all’essere della Natura, si pone come un assoluto non-essere, e, non essendo presupposto alcuno, sorge, si può dire, dal niente (si crea liberamente). Ma, poi, questo non-essere finisce con l’essere il vero essere, diverso da quello della Natura soltanto perché si fa continuamente (si autocrea). Il problema del niente, così, svanisce in lui come in Bergson (salvo che in lui resta, hegelianamente, la negazione come momento dialettico del divenire spirituale). – Sul concetto del niente nella storia della 

filosofia in generale puoi consultare G: KAHL – FURTHMANN, Das Problem des Nichts (Berlin, 1934): grossa trattazione, orientata tuttavia ancora in senso logico-gnoseologico, o metafisico nerl vecchio senso, molto lontano da ciò che di più vivo e profondo ha lo H. in questa trattazione. – Per la posizione del problema nel senso tradizionale, lo stesso H. ricorda Leibniz (v. pag. 85). – Il problema è stato ripreso, su le orme dello H., ma in altra direzione, dal noto scrittore «esistenzialista» J.-P. SARTRE nel laborioso vol. L’être et le néant (Librairie Gallimard, Paris). Pedr il Sartre è la coscienza (il puor soi) che, staccandosi dall’essere (dall’ être en soi), introduce quest’idea del niente (a sanare il contrasto ci vorrebbe un Essere che fosse insieme en soi e pour soi).

Quella forma della fantasia pura caratterizzata dal fluire di immagini labili e scarsamente corpose. A) Fant[asia] impura (che si applica a qualcosa) B) Fantasia impura (gioco arte, fantasticheria) cioè quel tipo di fantasia senza scopo, pura, caratterizzata dal fluire di immagini. Il termine generale è fantasia. Ci sono diversi tipi di immaginazione produttrice (memoria riproduttrice). Inconsistente, per cui la questione del niente non può essere considerata dal punto di vista logico (perché la respingo); dobbiamo usare il sentimento dell’angoscia.

[45] Buono, questo «non volerne sapere»: ché il problema del niente fa tutt’uno, in fine, con quello della morte, come si vede da Sein u. Zeit, pag. 254. Ed è, anzi, ben questa la ragione principale, per cui noi cerchiamo di sfuggire al problema dell’esistenza di noi a noi stessi nella nostra autenticità, e ci rifugiamo nel mondo dell’esistenza banale, dell’inautentico, secondo la nota dottrina heideggeriana. Per quanto elevata su tale banalità, la scienza, per la sua posizione dogmatica, vive anch’essa nell’inautentico.

[46] Essente stesso

[47] Il Niente

[48] Il Niente. Le domande logiche sul Nulla sono 1) an sit 2) quid sit 3) ut [come]  sit. [Nulla = blu rotondo, secondo Lella C., compagna di classe]

[49] Ancipite

[50] Ut

[51] Quid

[52] C’è una risposta possibile? Si dice intanto che il niente è, è un essente ma è tutt’altra cosa dall’essente, dal punto di vista della logica è un controsenso, ma non è detto che la logica debba decidere su ciò. Il negare è una specifica operazione dell’intelletto cioè il dire ‘non’, ma il niente deriva dal dire ‘non’ o piuttosto il dire ‘non’ deruiva dal niente? Se è vera questa seconda ipotesi, l’intelletto e la possibilità della negazione derivano dal niente; quello che è sicuro è che noi conosciamo il niente, è la negazione di tutto l’essente, quindi tutto l’essente deve essere dato per poter essere poi tolto via. Ma come può a noi finiti essere dato tutto l’essente? Comunque sia in questo caso noi acquistiamo il concetto del niente, non il niente stesso vero e proprio. Ma basta con le obiezioni dell’intelletto, dimostriamo che la legittimità della domanda sul niente può essere provata soltanto da un’esperienza fondamentale del niente. Nella noia propriamente detta o…

[53] Contenuto

[54] Sul piano della logica. Ma l’uomo non è soltanto razionalità e logicità, bensì anche un campo extrarazionale fatto di sentimenti, emozioni…

[55] Così e così

[56] Logico, cfr. il principio di non contraddizione in Aristotele e Leibniz

[57] Se A è A, A non può essere non-A (principio del 3° escluso: qualcosa è A o non-A, tertium non datur)

[58] Perciò

[59] Richiesta, domanda

[60] Dinamicità del processo

[61] Intelletto = strumentalità del pensiero, statico. Pensiero = ragione (seriale), processo discorsivo che applica quello strumento che è l’intelletto (puntuale, successione di punti). Il Niente per Parmenide è un totale assoluto (ablazione di tutto l’essere), per Platone è un parziale relativo (assenza di un essere specifico, concetto privativo del niente)

[62] La logica dell’intelletto, procedente per concetti empirici, già nella Critica d. r. pura [di Kant] è sostituita da quella trascendentale, e nello Hegel viene assorbita e superata nella logica del pensiero dialettico, in cui la negazione non è più il mero «non» discorsivo. Si poteva desiderare, qui,  almeno un cenno di quest’altra logica (della Vernunft, non più del Verstand). Ma lo H. ha espresso già altrove (cfr. S.[ein] u.[nd] Z.[eit], p. 433) il suo giudizio su essa (è una logica ancora soggettiva, formale). La posizione, da cui egli muove, della fenomenologia husserliana, segna, quindi, in ceryto modo, un ritorno dalla logica dialettica a quella «analitica» kantiana. Lo H., anzi, vuole qui fare un passo ulteriore anche su la logica fenomenologica, tentando un’«Analitica esistenziale», che dovrebbe svelare, nell’esistenza, l’origine segreta e il significato originario anche di ogni logica in generale.

[63] Possibilità di dire no, di negare.

[64] L’atto con cui si nega, l’atto del non. Il niente è un dato originario da cui derivano tutte le azioni che implicano il non (pg. 26). Per Parmenide prima c’è il non poi il niente. Cfr. Hegel: niente = non. Parmenide è il primo che afferma la realtà del niente.

[65] Prima, cfr. pg. 26

[66] Il niente è ciò che fa essere il pensiero

[67] La logica viene subito scartata; la logica è figlia del niente, viene dopo e non può perciò dare un giudizio

[68] Nella forma logica

[69] Cfr. Platone e Agostino

[70] Implica già un aver trovato

[71] Nota la tendenza, caratteristica di H., di prendere i concetti, per esaminarli poi criticamente, dal linguaggio comune (in accordo col suo proposito accennato nella nota precedente [la n. 55]. Solo che, lì, essi si presentano scoloriti dall’uniformità dell’uso quotidiano, e affidati alla mera evidenza dell’intelligenza immediata, volgare: non approfonditi e ricondotti al significato loro originario, aderente al senso che nel D. hanno tutte le categorie esistenziali. Di qui, il tentativo di H. di ridonar loro questo senso. Il che ha prodotto una terminologia nuova, spesso, almeno in apparenza, strana e artificiosa (quasi di un gergo, come suol dirsi): certo, non facile, poiché lì’Autore muove dal tedesco, a tradursi in altra lingua (ma neppure, crediamo, conviene farsi prigionieri di questa difficoltà, in fine, soltanto formale).

[72] Quotidiano, banale

[73] «Reso anemico dal pallore di un’uniforme evidenza» (Enzo Paci) [Enzo Paci, 1911-1976, allievo di Antonio Banfi, fu uno dei maggiori rappresentanti in Italia dell’esistenzialismo]. Manca la «curiosità», la «rarità», vi è l’usura del «fenomeno». Platone dice che il θαυμάζειν è il padre del filosofare; la curiosità è il motore del conoscere

[74] In poche parole

[75] La priorità è dell’essente

[76] Niente

[77] Die Allheit des Seienden, e, dopo poche righe, das Ganze des Seienden, non è semplicemente l’insieme delle cose, ma vi è inclusa l’idea dell’unità, come è detto poco dopo: «unità (Einheit) della totalità». Questo è un punto non scevro di difficoltà. Si può dire, anzitutto, da un punto di vista meramente ontico, volgare, che c’è il mondo come totalità (l’insieme) di tutte le cose (fatti o eventi che noi distinguiamo abitualmente in mondo della natura e in mondo storico-sociale): il mondo che s’è detto dianzi dell’esistenza bruta. Questo, per mezzo del D. che lo trascende, si accende alla luce dell’essere, onde avviene, come s’è già accennato, il passaggio dall’ontico all’ontologico, che lo fa, così, comprensibile, e, in certo modo, lo fonda anche esistenzialmente (sì che quello cessa di essere un dogmatico presupposto). Il mondo diviene, così, veramente «il mondo del D.», il quale è sempre, in questo preciso significato, un «essere-nel-mondo», ossia un rapportarsi, in ogni suo atto, a esso. Anche, anzi in primo luogo, a sé; ma a un sé (a un’ipseità), che, poi, di fatto, non esiste se non in rapporto all’altro da sé, ch’è il mondo. Il quale diventa, così una categoria esistenziale (trascendentale) del D., essenziale alla sua struttura (v. S. u. Z., pp. 63 ss). Ciò posto, sembrano chiare e giuste, per es., le seguenti affermazioni (più ampiamente esposte in Vom Wesen des Grundes, pp. 10 ss.): nell’atto trascendente del D. ciò che vien trasceso è l’esistente onticamente inteso; ciò verso cui il D. trascende, è il mondo, inteso, non come questo o quell’essente, ma come la totalità dell’essente, anche se questa totalità resti, per lo più, velata dall’interesse per le cose o preoccupazioni particolari; il mondo non è «un essente», non è «un esistente»: si può dire, addirittura, che non è, non esiste,se non in quanto si pone nell’atto trascendente del D., il quale, così, lo costituisce costituendosi nella sua Weltlichkeit (mondanità, o si dica «mondità», se vogliamo evitare il senso quasi di una profanità). Si dice, quindi,  in V. W. d. G. che Welt ist nie, sondern weltet: non si può dire ist, che è o esiste, veramente, come pur comunemente si Afferma: diventa «mondo» (si mondifica) nell’atto del D., dove è termine di relazione (h).

[78] In questo atto del rimuovere

[79] Due modi per risolvere la questione

[80] Si distingue l’atto della constatazione da quello del pensiero, della riflessione, della raffigurazione. V. Gaunilone [filosofo e monaco benedettino francese, 994 circa-1083 circa] contro l’ontologia anselmiana [non tutto ciò che abbiamo nell’intelletto deve esistere necessariamente nella realtà. Anche le cose false, infatti, sono presenti e comprese dall’intelletto, e tuttavia certamente non esistono nella realtà].

[81] L’idea di…; Formaliter non realiter (Hume)

[82] Reale, cioè in carne e ossa (Husserl).

[83] Reale

[84] Immaginato

[85] Sì, il niente rappresenta la perfetta indifferenza, come ora vedremo (nell’angoscia), ma non nel senso di una formalità astratta, indeterminata (com’è nella Logica di Hegel).

Cfr. Leibniz: principio della identità degli indiscernibili (principium identitatis indiscernibilium).

[86] Nostro malgrado, senz’accorgersene (cfr. pg. 266 Lamanna [cit.], vol. II, Kant)

[87] Angoscia, situazione emotiva

[88] Perché siamo finiti

[89] Mondo

[90] Atto conoscitivo, constatazione

[91] Erfassen e Sichbefinden. Questo sensus sui, ch’è, insieme, «senso cosmico» (di provenienza estetico-romantica), serve bene, qui, a chiarire perché, poi, solo nell’uomo avviene, con un atto di libertà, il trascendimento.

Convinzioni irriflesse; Santayana le definisce «certezze animali»

[92] Basta che noi viviamo; certezza (animali)

[93] Ec-stasis (alienazione)

[94] La Sorge (cura, preoccupazione, sollecitudine, attenzione), parola-chiave in H.

[95] Cfr. «La metafisica della noia» di V. Jankelevitch (1939)

[96] Diffusa

[97] Propria di quello stato d’animo che avverte la totale insignificanza dell’essente

[98] Sentimento globale che coinvolge l’esistenza delle cose nella loro totalità; annotazione di disturbo – sentimento che prepara quel sentimento definitivo che è l’angoscia

[99] Stato sentimentale; H. lavora sul piano emotivo, sentimentale, non logico

[100] ἀλήθεια; per H. teoria della innascostezza della verità. La verità è ciò che non è nascosto

[101] Essenziale

[102] Sentimenti o emozioni. Le condizioni psichiche sono 4: sensibilità, attenzione, memoria, sentimento

[103] Deve essere prima perché tutto il resto sia

[104] A piè di pagina è inserito il seguente riferimento fatto da Menon: «La poesia per [Benedetto] Croce è un fenomeno 1) accidentale e 2) raro; la poesia è l’interdizione di qualsiasi interesse pratico o economico

[105] Di rado: v. oltre p. 24. H. mira, in realtà, a un’angoscia «essenziale» (strutturale, possiam dire), che ci dia «costantemente» il senso del problema. Cfr. pp. 45, 48 s., 71.

[106] Emotiva

[107] Cfr. Rudolf Otto, Il sacro tremendo, augustum, fascinoso): il ‘numen’ sarebbe la molla del fatto religioso nell’uomo. Analogia con l’angoscia heideggeriana

[108] Cioè la Sorge

[109] Carica naturalmente di angoscia; negazione del tempo e quindi della Sorge

[110] Indeterminato

[111] Nel testo è es (neutro): v. poco dopo.

[112] Cfr. il leopardiano «E il naufragar m’è dolce in questo mare» (L’infinito)

[113] Essere continua ad essere ma carico di nulla (e ce lo rivela). V. p. 22 «retro-innanzi»

[114] Nell’attimo stesso in cui scompariamo, scompariamo anche come banali ed emergiamo come veri esistenti

[115] Le difficoltà di questa impersonalità del D. qui sono anche maggiori in quanto siamo nella sua autenticità (non nella banalità dell’inautentico). L’essere esistenziale prende qui il posto dell’Io penso kantiano (l’autocoscienza in generale): per mezzo di esso (del D.) l’essere in sé delle cose (il noumeno di Kant) si fa manifesto (sarà da vedere, poi, se questo essere in sé delle cose non rimandi a un essere che sia puro essere, il quale sarebbe il vero noumeno).

Il ted. MAN indica l’anonimo

[116] Ontologico, supporto metafisico della nostra onticità

[117] Lett.: è quel che «ancora c’è» (das reine D. – ist noch da).

[118] Fare un discorso senza senso (Paci)

[119] Sono, queste, tra le più belle pagine dello H.: la metafisica è divenuta davvero, come ha detto prima, la sua passione.

[120] L’uomo

[121] Da inautentico diventa autentico

[122] Per far ciò bisogna… (Paci)

[123] L’essere continua ad essere ma carico di nulla (la presenza del nulla nell’essere).

[124] È sempre essente. Il Niente è immanente all’Essere

[125] Logica (comprehendere)

[126] Angoscia

[127] Tremante, sempre meno sicuro

[128] Si direbbe, dunque, che non è un «niente di fatto», ma un «niente di valore» (una «nullità»).

[129] Nota questa «impotenza», che si converte, poi, in H., nell’orgogliosa accettazione (stoicamente) del fatto (del fatto di «essere gettato nel mondo»), e però nel senso, come si dice altrove (cfr. p. 49), di una «superpotenza», in quanto consapevolezza del fatto e ferma volontà (Entschlossenheit, decisione risoluta) di affrontare il proprio «destino» (fedeltà alla morte). – Per il cristiano c’è, sì, invece, l’«umile rassegnazione», ma nel senso di un’accettazione del volere di Dio (invece del «destino»), onde essa deve produrre, non l’inerte acquiescenza, ma una volontà altrettanto ferma, e più ancora, di affrontare l’esistenza di fatto per trasformarla in esistenza di valore: ch’è anch’essa una «superpotenza». Le risonanze, nella filosofia dello H., di motivi nietzschiani sono note. Con questi non sono meno evidenti quelli di provenienza teologica cristiana (l’idea della finitezza, della caduta, dell’esser gettato nel mondo, ecc. – altri si vedranno nel seguito).

[130] Nel momento stesso che l’angoscia fa retrocedere l’essere in esso appare il nulla.

[131] L’angoscia svela ma non crea il Niente

[132] Giudizio logico (cfr. dianzi a proposito del non e della negazione intellettiva). Il che non toglie che già prima ci sia un giudizio nel senso del contrasto fra e l’altro da sé, da cui sorge il problema del niente (ch’è, quindi, un niente, non meramente logico, ma esistenziale).

[133] Cfr. p. 26. Il niente contiene in sé tutte le negazioni

[134] Cfr. Sartre

[135] Perché altrimenti il niente deriverebbe dal nientificare

[136] Befremdlichkeit (befremdend, ch’è strano, singolare, sorprendente, inquietante). L’«assolutamente altro», che segue, tenterebbe a tradurre con estraneità (quasi esteriorità). Ma si tradirebbe l’intenzione dello H., per il quale la questione metafisica (dell’essere) sorge, platonico-aristotelicamente, dalla meraviglia (cfr. la domanda finale di questa Prolusione). Notammo già, infatti, che il problema dell’altro è diverso da quello del niente (v. nota prec.[n. 122]) (l).

[137] Interpretando misticamente: Niente = Dio; uomo autentico = santo; che cosa sono per il santo le cose? Nulla. Qual è la verità? Dio

[138] Nota! Si direbbe che questa è la più geniale e originale intuizione dello H.: non più l’essere spiega l’essere, come nella Metafisica classica, ma l’essere (l’essente) viene dal niente, come nella Metafisica cristiana (la Creazione): se è il niente che rivela l’essere dell’essente come solo essente (di fatto). O diciamo: il niente è la ratio cognoscendi dell’essente in quanto essente,  anche che non ne sia la ratio essendi (che, anche per lo H., è l’Essere). Tutto, ben inteso, se l’«essente in generale» è il mondo come mondo.

[139] Tanto più l’uomo si attiene al Niente (Dio), tanto più è.

[140] Dasein

[141] V. pag. 33

[142] Nota: Transzendenz  in H. è l’atto stesso del  trascendere, e però «trascendente», per lui, è quest’atto stesso. Ma egli accetta il termine anche nell’uso comune, per es. in S. u. Z., p. 38: «Sein ist das trascendens schlechthin»; e v. più in là, p. 28. Il trascendere, dunque, del D. è soltanto relativo (è, infatti, soltanto trascendentale).

[143] Perciò

[144] Qui il testo ha solo Selbst; ma, subito prima, sich selbst (di nuovo, la difficoltà di questa impersonalità del Selbst, corretta, sembra, dal sich, che,, tuttavia, non è un Sich: il principio della personalità, d’altronde, non si riduce a quello logico, vuoto, dell’identità). Così dicasi per l’ipseità (v. p. 77), equivalente, nel senso, a un neutro (a un neutro, tuttavia, – si noti -, della personalità, e però impersonale soltanto in questo senso).

Superficialità = la scorza

[145] Sarebbe il peccato per Sant’Agostino (aversio – deterquere, vertere – a Deo)

[146] Inautentica. Ch’è un modo di «distrarsi» (cfr. il divertissement di Pascal). Chi, invece, non vuol sfuggire al problema, ha due vie aperte: alla disperazione (pessimismo) o alla speranza (ottimismo cristiano, che sottintende la fede: quello di Leibniz è un ottimismo soltanto apparente, affermazione dogmatica, che non impegna). Lo H., come vedemo fra poco, respinge l’interpretazione pessimistica della sua filosofia.

[147] Il Niente: 1) ci fa essere e 2) ci fa esseri pensanti.

[148] Nessun

[149] Perciò

[150] 1) Dio 2) fiat 3) mondo. 1) Niente 2) attività nientificatrice 3) cose. 1) Niente 2) funzione negatrice 3) negazionabilità 4) negazione. Il niente, oltre a farci essere, ci fa essere esseri pensanti. Il niente si rivela continuamente nell’atto della nostra negazione

[151] Cfr. pag. 13

[152] Il Niente appare come una dinamica negatrice (è, in quanto agisce negativamente).

[153] Non poteva accettare che il Nulla esistesse per il principio di contraddizione. [Nella pagina, senza riferimento a un punto specifico del testo di H., c’è la seguente annotazione:] Dante, Paradiso, XXX 48 […mo su, mo giù e mo recirculando.]

[154] Cfr. pag. 12

[155] Il domandare più originario è l’essenza stessa costitutiva del D., il quale è, così, per se stesso, un fragen (il perché da cui tutti gli altri perché). Si potrebbe dire ch’è un problemare (meglio ancora, un «problemarsi», se l’attenzione non fosse più all’altro che a ).

[156] Modi

[157] L’uomo

[158] Funzione negante

[159] Cfr. pag. 22

[160] Indica passività (sopporta). Il Dasein ha come sua caratteristica il suo «essere gettato ad essere nel mondo»; (è la situazione) [in cui] ci troviamo nostro malgrado

[161] attività = libertà

[162] Problema del libero arbitrio.

[163] L’ontologico (scienza dell’essere) diventa oudenologico (scienza del nulla) [Probabile riferimento a un passo di M. F. SCIACCA, Rosmini e Heidegger: risposta a François Evain, sta in Interpretazioni rosminiane, Marzorati, Milano, 1958]

[164] Sorge (cura).

[165] Si rivela il poco conto che si ha delle cose, la scarsa importanza delle cose.

[166] Ciò che riscatta l’uomo è la fine della sua vita (v. Rilke, Quaderni di Malte Laurids Brigge). Ogni uomo ha la morte che si merita.

[167] Intuizione ben giusta: l’eroe, che getta via la vita per affermare il valore della vita stessa, è l’esempio più manifesto del valore assoluto, a cui aspira l’essere esistenziale, ed è, perciò, vicino all’atto creatore

[168] Cioè il Nulla

[169] L’uomo è un essere finito, limitato: tramezza, nel suo esistere, fra l’essere (l’essere assolutamente) e il nulla, limiti estremi ch’egli avverte in sé, incapace di raggiungerli e possederli pienamente. Del nulla egli è soltanto la sentinella (più in là troveremo ch’è la sentinella dell’Essere): li ha e possiede in sé, infatti, solo come termini del problema della sua esistenza. – La libertà assoluta ci darebbe, essa sola, il niente assoluto dell’essente come soltanto essente, e però la verità dell’Essere (cfr. Dell’esenza della Verità, cit., p. 33). Noi potremmo anche dire, quindi che libertà per l’uomo è soltanto processo di liberazione da quell’esistenza mondana, che condiziona la nostra umanità in quanto tale.

[170] L’uomo

[171] L’uomo che si confonde con le cose

[172] È superamento anche di questa totalità (ossia, del mondo, della «mondanità»)? Questo punto ci sembra, in H., molto oscuro.

[173] V. pag. 3 [la prima pagina del saggio di H.]

[174] È il problema metafisico per eccellenza.

[175] Jeweilig. Si vorrebbe intendere del modo di vedere comune, banale. Ma H. lascia incerto il suo pensiero, ci sembra. Perché quella Metafisica greca non si fece, del niente, un problema? Noi, abitualmente, diciamo che quella Metafisica non si fece del niente un problema perché mancava dell’idea (ebraico-cristiana) di creazione

[176] Cfr. il Timeo di Platone (μή ὄν), massa informe (caos)

[177] Fa diventare il caos cosmos

[178] Qui, parlando della Scolastica, ho tradotto il Seiendes con ente

[179] La difficoltà parrebbe risolta, se si riconosce che il problema del niente è un problema tipicamente umano, cioè il modo soltanto umano di comprendere la Creazione (ex nihilo non vuol dire, è ovvio, semplicemente, la mancanza della «materia informe» su accennata, quasi che Dio sia un Demiurgo più portentoso di quello platonico, solo perché produce, oltre la forma, anche la materia: ché questo è modo volgare di rappresentare la Creazione, quasi fosse una produzione materiale). Gli accenni storici dello H. restano qui, mi pare, nel vago (Dio non è semplicemente l’Ens increatum: è l’Essere creante: a questa Metafisica di H., come a quella greca, resta estranea l’idea di Creazione).

[180] Senza connotati

[181] La limitazione, ossia la nullità dell’essente come solo essente, si rivela, non già nell’astratto pensiero logico (hegeliano), ma nell’atto concreto del D. che ha scoperto in sé il vero concetto del niente (o).

Perché l’essere nella sua essenza è finito e non si rivela che nel trascendersi dell’essere esistenziale che nel nulla va al di là dell’essere (E. Paci)

[182] P. 13

[183] Questa frase «das Seiende im Ganzen» ritorna bene spesso in H., e notammo già che il significato di questa «totalità» non è chiaro. Qui sembra che essa (la totalità dell’essente) sia sempre limitata, come limitato è l’essente. Se il D., allora, trascende, non solo l’essente, ma anche la sua totalità, esso si ritroverà in rapporto con l’Essere trascendente assolutamente. Ma il D. non è sempre un «essere-nel-mondo»? O si dovrà pensare, allora, a una totalità, e però a una trascendenza soltanto relativa (delle cose nella loro particolarità)? Quell’Essere, allora, sarebbe, spinozianamente, soltanto il «vero essere del mondo».

[184] V. pp. 3-4

[185] Cfr. p. 5

[186] Noi scienziati

[187] Cfr. p. 8

[188] I. e. (si direbbe), se lo scienziato, per quanto rivolto all’essente (al mondo), non scorda in esso se stesso, il problema della propria esistenza. – O siamo ancora dentro al concetto della Metafisica classica, dogmatica, della scientia scientiarum, corretta solo per quella (dubbia: v. nota precedente [la n. 165]) trascendenza dell’Essere all’essente?

Tanto più si aggrappa al niente, tanto più è oggettiva

[189] Che poretende di essere tale in modo oggettivo.

[190] Oudenologia (o udenologia) cioè scienza del nulla, del Niente.

[191] Cfr. p. 6

[192] V. p. 49 per «la meraviglia di tutte le meraviglie» [Carlini si riferisce a un passo dell’importante Poscritto (Nachwort) che Heidegger aggiunse al testo della Prolusione a partire dalla quarta edizione (1943). Menon non  commentò in classe (e quindi non fece studiare ai suoi allievi) né il Poscritto né l’altrettanto importante Introduzione (Einleitung)  premessa al testo originario a partire dalla quinta edizione (1949) , nonostante che entrambi facessero parte del volumetto pubblicato dalla Nuova Italia. Per un interessante collegamento tra H. e Wittgenstein, si veda F. VOLPI, La selvaggia chiarezza – Scritti su Heidegger, Adelphi, Milano, 2011, in particolare le pp. 213-230].

Per Aristotele il θαυμάζειν (meraviglia) è ciò che muove alla conoscenza.

[193] Sorge

[194] proporci

[195] della scienza

[196] Il fondamentale atto conoscitivo (il fondamentale sentimento gnoseologico) è la curiosità: 1) [e]straneità 2) curiosità 3) scepsi. Scepsi = radice della ricerca; la scepsi è mossa dal dubbio. Lo scetticismo, il dubbio [è di due tipi]: pirroniano = sistematico (statico); cartesiano = metodologico o metodico (processo verso)

[197] davvero

[198] l’uomo

[199] gatto e cane, albero e sasso

[200] V. p. 23

[201] ossia la capacità di sentirsi estraneo all’essente

[202] e di indagare scientificamente su di esso

[203] trans

[204] Cfr. la «chiara notte del niente», p. 22

[205] Per la teoria dell’errore come «erramento», v. Dell’essenza della verità, VII.

[206] Nel senso di Metafisica

[207] L’oggetto della Metafisica è decisivo. Dire Nulla vuol dire umanità = Metafisica. Da una parte c’è la Metafisica e dall’altra la scienza e si occupa dell’essente. Quest’ultima si fraziona in altre scienze ognuna delle quali si occupa di un determinato campus e lo sbaglio è limitato al campus che gli (?), quindi si può più facilmente sbagliare quando il campus della ricerca è infinito

[208] esistenza autentica

[209] «Una certa filosofia, amico mio, si trova naturalmente nella ragione umana» 

[210] Attraverso il «διανοειν» diventa esplicita

[211] quella cioè di essere nel nulla

[212] di sé

[213] Uno solo: il mondo come utensile. Idola, cfr. Bacone.

[214] Cfr. p. 27, tremolio perché il Nulla non è definitivo…

[215] dunque

[216] prima

[217] L’aggiunta «e non piuttosto niente» non pare felice, in quanto il niente vien ripresentato, all’improvviso, qui, proprio nell’espressione combattuta, quasi di un «niente che è», e non nell’atto «nientificante» del D. La domanda sembrerebbe più coerente così: Perché quest’essente, se esso è un niente? Ossia: perché il trascendere del D.? perché, a che la conseguente angoscia inserita nel più profondo senso della nostra umana vita nel mondo? – Ma, di nuovo, l’interesse dello H. sembra oscillare fra questo dramma interno del D. e la mera constatazione, a cui il problema del niente dà luogo, secondo lui, della finitezza dell’essere nell’essente. È un punto, questo, che impegna tutto il pensiero heideggeriano, e però giustamente l’Autore ci è tornato su nello scritto che ha posto, in séguito, per introduzione a questa Prolusione.

Se c’è, come c’è, la morte irrimediabile e definitiva nelle sue conclusioni, nulla mi è lecito

 

* del curatore del volumetto, Armando Carlini

[218] Andronico di Rodi pubblicò le opere di Aristotele, collocando i libri di Filosofia Prima dopo quelli di Fisica (μετὰ τὰ φυσικά)

§§§§§

[appunti dalle lezioni di filosofia di G. G. Menon]

Edmund HUSSERL (1859-1938)

(studiare la coscienza quando ha dei contenuti/oggetti che sono i suoi fenomeni = fenomenologia)

 

È premessa necessaria per conoscere Heidegger.

È esponente della scuola fenomenologica.

Si ricollega a Franz Brentano (1838-1917, filosofo e psicologo tedesco, maestro di Edmund Husserl e Alexius Meinong), il quale ha messo in evidenza il concetto di coscienza come intenzionalità (tendere verso). Prendiamo un qualunque sentimento, per es. l’amore: implica un rapporto tra l’amante e l’oggetto amato (che è il fenomeno della coscienza); l’atto dell’amore implica un tendere di qualcosa verso qualcosa, un ri-volgersi della coscienza. Qualunque fenomeno della coscienza è per, nella, della coscienza e si può ridurre allo schema dell’intenzionalità.

Coscienza = intenzionalità. Per es. io voglio bene a te non fuori di me ma in quanto te dentro di me, cioè gli oggetti soo fenomeni che si presentano alla coscienza (l’oggetto è immanente alla coscienza, è trascendente ad essa). La realtà dell’oggetto è nella coscienza. L’oggetto è interno, la realtà dell’oggetto è nella coscienza.

Husserl approfondisce tutto questo cioè il concetto di intenzionalità della coscienza.

I contenuti sono intuizioni eidetiche (noematiche) nel senso di essenze (idee) platoniche. Perché gli oggetti della coscienza non sono fisici…

Se alla mia intenzionalità cosciente si presenta un oggetto x, quello che importa è la presenza dell’oggetto nella coscienza.

Il fenomenologo non si cura se all’oggetto della coscienza corrisponda un oggetto reale, se esista o meno nella realtà. Egli mette tra parentesi la realtà dell’oggetto. Epoché = sospensione/astensione del giudizio circa la realtà dell’oggetto. Realtà fenomenologica o riduzione fenomenologica = tutti gli oggetti si riducono ai contenuti della coscienza.

Ora bisogna esaminare come si configura la coscienza (rapporto di sé nei confronti di un oggetto immanente ad essa ma non identificantesi con essa), vediamo come la coscienza può essere divisa.

Le sfere eidetiche (o regioni ontologiche) sono i campi in cui si possono classificare i fenomeni (i vari eidon) della coscienza (sfera dell’arte, della moralità, della religione…).

La coscienza è in quanto intende, si muove verso un oggetto, oggetto che appare alla coscienza [come] suo fenomeno.

La sua realtà extra-coscienziale è messa tra parentesi (riduzione fenomenologica). Coscienza intenzionale che si rivolge all’oggetto che è suo fenomeno.

Le sfere della coscienza sono varie ontologie regionali – sfere eidetiche.

Il primo atto è stato quello di ridurre l’oggetto nella sua realtà storica, esistenziale (non si preoccupa se l’oggetto esiste o no). Mette in evidenza soltanto l’eidos, i contenuti noematici.

Se mettiamo in parentesi anche questi εἶδη, operiamo una seconda riduzione per cui, eliminati gli esistenti e le essenze, resta la coscienza nella sua pura assolutezza. 1) Riduzione fenomenologica = mettere tra parentesi gli oggetti esterni per mettere in evidenza gli oggetti della coscienza; 2) Riduzione = mettere da parte anche gli oggetti della coscienza per occuparsi soltanto della coscienza.

 

§§§

 

Introduzione a Heidegger

Fridegiso [di Tours, cfr. Étienne Gilson, 1884-1978], conterraneo e amico di Alcuino di York (VIII-IX sec.) aveva scritto una Epistula de nihilo et tenebris nella quale sostiene che il Niente esiste: «Ogni significazione è di ciò che esiste; ma il niente significa qualche cosa, dunque il niente è significazione di ciò che esiste, cioè di cosa esistente» e commentando il passo di Matteo 6, 23 («Se dunque la luce che è in te è tenebre, quanto grandi saranno le tenebre!») con la dottrina delle categorie aristoteliche (i concetti più alti, i «generi sommi» che hanno massima estensione e minima comprensione), trae queste conseguenze:

- la grandezza appartiene alla categoria della quantità

- ma ogni quantità si predica accidentalmente di un soggetto che ha il titolo di sostanza

- dunque le tenebre, essendo suscettibili del più e del meno, sono un soggetto, una sostanza, un corpo, dunque esse sono corporee (cfr. De Ruggiero).

 

 

Martin HEIDEGGER (1889-1976)

Che rapporto tra Husserl e Heidegger? Tra fenomenologia ed esistenzialismo?

Nel 1927 scrive Essere e tempo in cui prospetta il rapporto tra Husserl e sé stesso. Mentre Husserl si preoccupa delle essenze e non dell’esistente (Dasein, esser-ci nel senso di essere qui, connotabile nel tempo e nello spazio; il Dasein è un qualunque essere; il Dasein dell’uomo si presenta come ex-sistente), Heidegger si occupa soltanto dell’esistente, del Dasein perché l’essenza è un dato della psiche (astratto) di cui il concretista [sic!] non si occupa. Occuparsi del Dasein significa occuparsi dell’Essere (dell’esistenza che è come dire Essere).

L’unica via di accesso all’Essere è l’esistenza che sono io (Noli foras ire, in te ipsum redi [in interiore homine habitat veritas], Agostino). L’Essere non lo cogliamo fuori, ma dentro di noi, anzi noi siamo l’essere.

L’uomo solo concentrando l’attenzione su di sé, risolve il problema metafisico.

Il problema dell’Essere diventa il problema dell’uomo (io, nella mia circoscrizione/determinazione tempo-spaziale). La mia esistenza mi rivela l’Essere.

Heidegger (ateo) si rifà a Kierkegaard con uno spirito diverso da Karl Barth (teologo).

Esistenza = implica che qualcosa (l’esistente) ex-siste, emerge da un qualche cosa (l’Essere) (non è l’Essere della filosofia). Qui, nella filosofia nichilistica di Heidegger l’Essere è il Nulla.

L’esistente è tale perché emerge dalla «chiara notte del nulla», dall’Essere che si annientato, nullificato. L’uomo, che scopre in sé la strada dell’essere, si chiede: perché ci sono piuttosto che non? Quando faccio di me un problema, una domanda, mi trascendo, questo è l’atto del trascendere, l’atto metafisico, mi faccio metafisico.

L’esistenza ha due dimensioni, aspetti, livelli:

1) quotidiana, banale, non autentica (a rigore l’esistenza dovrebbe essere soltanto l’autentica, l’altra vita);

2) autentica

I connotati dell’esistenza banale sono:

1) anonimità – l’uomo si trova in situazione anonima, non è lui che patrla, che dice, ma dice quel che si dice, quel che si pensa (man spricht, in tedesco significa «si dice»).

2) utensilità – questo uomo si trova in rapporto con le cose, altri Dasein, instaura un rapporto di utensilità con esse; per me, in rapporto a un oggetto, mi interessa perché mi serve; le cose sono da me usate nella loro utilità, validità utilitaria.

3) exstasi – mi trovo perciò sempre in uno stato di ex-stasi [ἐκ=ἐξ + στάσις «turbamento o stato di stupore della mente», der. di ἐξ-ίστημι «mettere fuori» o «uscire di sé»], è in estasi perché, in quanto l’uomo usa le cose, diventa egli stesso cosa: gli servono, perciò soffre se gliele portano via; è fuso, gettato dentro, confuso nelle cose di cui si serve (dissipazione) per cui:

4) Sorge - (lat. cura), preoccupazione, ansia; la vita è affanno, l’affanno sta alla radice di quell’uomo; egli è sempre mosso da queste banali preoccupazioni che lo spingono al:

5) lavoro - l’uomo si caccia nel lavoro che è l’oppio di chi ha paura di sé stesso, di chi ha paura di trovarsi viso a viso con sé stesso.

6) paura del tempo – l’uomo banale ha paura del tempo che lo sostanzia; il tempo per l’uomo banale è il passato che gli si presenta come qualcosa di irrevocabile, somma di abitudini che lo fanno essere quello che è, nel peso della tradizione; questo passaggio che è lui (?) lo pungola verso il futuro, lo spinge di lavoro in lavoro senza mai fine.

L’uomo banale è retore (discorsi senza fine e significato); l’uomo autentico è persuaso (è fuori del tempo, non  ha tempo, il tempo è la sostanza delle cose e della fuga da sé stessi).

Crisi della banalità, nascita dell’autenticità: a un certo momento succede che questo essere banale si ponga la domanda metafisica (esistenziale): «Perché ci sono piuttosto che non?». In quel momento comincia il processo di autenticazione che avviene in tre tempi:

1) con l’atto metafisico del domandarsi; il Dasein acquista coscienza della situazione («L’esistenza illuminata da ragione prende coscienza della propria situazione», Jaspers). Heidegger dice: del nostro essere gettati nel mondo e ci si mette in rapporto con quell’Essere dal quale noi sporgiamo, emergiamo, esistiamo;

2) quando avvertiamo quel sentimento della noia (che è sentimento rivelatore, anticipatore di quella condizione sentimentale che si chiama angoscia. Noia per tutto, per la totalità dell’essere, noia per la quale il mondo si rivela a noi nella sua totale indifferenza (il mondo scolora), comincia a diventare estraneo, non ci appare più come mondo di cose utensili, le cose ci sono indifferenti;

3) nel momento stesso in cui il mondo si allontana, emerge dall’Essere il nulla e ce lo rivela l’angoscia (che è il sentimento che possiede il nulla e ci possiede; è il sentimemnto esistenziale per eccellenza); angoscia che emerge dal nulla e che nullifica. Tanto più ci definiamo nel (ci sentiamo stretti al) nulla, tanto più siamo autentici, esistiamo. Tutti i valori propri della vita banale (cura, sollecitudine, tempo) non ci appartengono più.

Noi ci accettiamo come finiti, non fuggiamo il tempo, non rincorriamo la vita fuggendo la morte e abbiamo già anticipato nel presente la nostra fine (morte); l’uomo autentico è libero per la morte.

 

§§§

 

TABELLINA DELL’ESSERE

 

Essere = il fondamento metafisico (ontologico) di tutta la realtà

ente (si passa in sede ontologica, rapporto di ordine metafisico), cioè essente che si fa esserci (si passa in sede ontica che è il piano dell’esperienza) o esistenza (sotto l’aspetto 1. dell’esistenzialità, in tedesco existenzial cioè l’esistenza esaminata in generale nella sua struttura, nella sua trascendentalità; 2. dell’esistentività, in tedesco existenziell – Jaspers usa solo existenziell – cioè l’esistenza considerata nella sua singolarità, nella sua concretezza)

ontico = empirico, che è accessibile all’esperienza (empirica)

ontologico = è un dato metafisico

esistentivo = secondo Jaspers che riguarda l’uomo nella sua connotazione di concreto

esistenziale = è ciò che riguarda l’uomo nella sua struttura in generale (H. si occupa di ciò che è)

l’Essere per rivelarsi, si rivela sempre come un dato essere, perciò si ha un insieme di enti cioè essenti (l’Essere costituisce la base di questi essenti). Questi essenti quando si (?) nel tempo-spazio vengono chiamati esserci (quando dal piano ontologico si passa al piano ontico).

l’esistente è l’esserci in quanto emerge dall’Essere (tutti gli esseri sono esistenza, ma [?] diremo esistenza soltanto quell’esserci che è l’uomo perché ha coscienza del suo emergere autentico) ma agisce.

 

§§§

 

Nel 1928 Heidegger succede a Husserl sulla cattedra di Friburgo (Brisgovia) al quale aveva dedicato nel 1927 la sua opera Essere e tempo.

Che cos’è la metafisica (1929), prolusione del suo corso di lezioni a Friburgo, è in rapporto intimo con Essere e tempo.

L’opera si articola in 3 parti:

1) esplicazione (impostazione)

2) elaborazione

3) soluzione

e riguardano una questione di metafisica determinata.

 

ESPLICAZIONE

a) Ogni questione metafisica determinata comprende la totalità metafisica e pone in questione il questionante (ogni questione metafisica quando pone in questione sé stessa pone in questione tutte le altre questioni metafisiche, e ognuna pone in questione colui che fa/pone la questione).

b) Perciò occorre [mettere] in questione la totalità della metafisica e tenere conto della situazione del questionante (qui si rivolge a scienziati). Ora i questionanti sono situati in quella posizione che si chiama scienza (in senso lato). Tutte le scienze sono rigorose. Rigore = il rigore è di tutte le scienze; i risultati delle scienze devono essere validi e ciò vale sia per le scienze naturali sia per le scienze dell’uomo. Nel campo della matematica il rigore/la rigorosità si chiama invece esattezza.

c) Le scienze si riferiscono all’essente stesso, si riferiscono cioè al mondo, si approssimano a ciò che è l’essenziale di tutte le cose.

d) Le scienze si sottomettono (atteggiamento di sudditanza); mediante la scienza un essente (l’uomo) fa un’irruzione nella totalità dell’essente, costringendolo a rivelarsi. Perciò le scienze si caratterizzano come: 1) riferimento al mondo (cioè all’essente stesso e niente altro), 2) atteggiamento (nei confronti dell’essente e niente altro) 3) irruzione (nell’essente e niente altro).

Emerge così il problema del NIENTE (filosofia oudenologica di Heidegger).

Che cos’è questo niente? Il niente per la scienza (p. 9 del libro di testo adottato) è o una mostruosità o una fantasticheria. Le scienze cioè non vogliono saperne del niente, ma ciò (il niente) che esse rigettano, esse stesse lo esigono e perciò la domanda sul niente si impone (p. 10). An sit (se sia), quid sit (che cosa sia), ut sit (come sia).

 

ELABORAZIONE

C’è una risposta possibile? Si dice intanto che il niente è, è un essente, ma anche che è tutt’altra cosa dall’essente. Dal punto di vista della logica ciò è un controsenso, ma non è detto che la logica debba decidere su ciò. Il negare – cioè il dire non – è una specifica operazione dell’intelletto.

Ma il niente deriva dal «dire non» o piuttosto il «dire non» deriva dal niente? (perché possediamo il niente in forma pre-logica). Se è vera la seconda ipotesi, l’intelletto e la possibilità della negazione derivano dal niente (il niente è fondamento dell’atto intellettivo). Ma dove, come troviamo il niente? Quello che è sicuro è che noi coniosciamo il niente. È la negazione di tutto l’essente, quindi tutto l’essente deve essere dato per poter poi essere tolto via.

Ma come a noi finiti può essere dato tutto l’essente? Cmunque sia, in questo caso (nel momento in cui noi togliamo la totalità dell’essente) noi acquistiamo il concetto del niente, ma non il niente stesso vero e proprio.

Ma basta con le obiezioni dell’intelletto, dimostriamo che la legittimità della domanda sul niente può essere provata sioltanto da un’esperienza fondamentale del niente.

Nella noia propriamente detta (o anche nella gioia) ci viene addosso tutto l’essente (anche se nella sua indifferenza o insignificanza); essa è un sentimento.

Ma ciò che ci porta davanti al niente stesso è un altro sentimento: l’angoscia. Essa ci tiene sospesi, porta l’essente nella sua totalità a scomparire e noi stessi scompariamo con esso a noi stessi.

 

SOLUZIONE

L’uomo si trasforma ogni volta che l’angoscia lo prende. Il niente si scopre nell’angoscia, ma non come un essente. Il niente viene incontro all’angoscia insieme con la totalitàò dell’essente (retro -innanzi). La totalità dell’essente non viene annullata nell’angoscia in modo che resti il niente; non è un annullare l’essente, è il niente stesso che nientifica l’angoscia e rivela l’essente che è, e non è niente. Il fatto che non è niente precede il rivelarsi dell’essente.

L’uomo è portato davanti all’essente come tale dal niente nientificante; l’uomo è in quanto si tiene interiormente al niente (p. 23) e questo suo essere sopra l’essente è la trascendenza.

La libertà è possibile soltanto in rapporto al niente.

Risposta alla questione non è un essente – non si presenta per sé né accanto all’essente cui inerisce. Il niente è la condizione del rivelarsi all’uomo dell’essente.

Il nientificare del niente avviene nell’essere dell’essente.

Se l’uomo esiste soltanto tenendosi dentro al niente, l’uomo dovrebbe essere fermamente sospeso nell’angoscia. Ma questa angoscia originaria è rara (p. 24). L’angoscia è nascosta, quanto più ci volgiamo all’essente tanto più ci rivolgiamo via dal niente, cioè tanto meno esistiamo, tanto più è superficiale la niostra esistenza.

Ma il niente nientifica in continuità, la negazione lo prova continuamente, essa aapparrtiene all’essenza stessa del pensiero umano (p. 25).

Prima il nientificare del niente, poi il non, poi la negazione.

Essa è un modo dell’atteggiamento negativo (p. 26).

C’è anche l’azione ostile, il ricusare, il proibire, il rinunciare.

L’angoscia originaria (p. 27) viene nell’esistenza per lo più tenuta giù. Il suo respiro dà un tremolio all’essere esistenziale, il «sì sì» il «no no» dell’uomo indaffarato.

L’uomo è la sentinella del niente.

L’esistente (p. 28), l’uomo nell’angoscia supera (trascende-nza) la totalità dell’essente (metafisica).

Il problema del niente comprende tutta la metafisica (p. 29).

1) la metafisica antica dice che ex nihilo nihil fit (dove si intende il niente come il non essente, la materia informe);

2) la metafisica cristiana dice ex nihilo fit ens creatum, dove il niente è opposto all’ente (summum ens, ens increatum).

Nei due casi il niente è opposto all’essente vero e proprio.4

3) per Heidegger il niente (p. 30) appartiene all’essere dell’essente stesso; essere e niente coincidono, ma non nel senso hegeliano di indeterminatezza, bensì nel senso che l’essere ci rivela nell’esistenza che è in quanto si tiene dentro al niente (p. 31): ex nihilo omne ens qua ens fit.

 

Lo scienziato si riferisce all’essente (p. 32). Essendo lo scienziato un’esistenza ed essendo questa in quanto si tiene dentro al niente, lo scienziato non può disconoscere il niente.

La scienza trae dalla metafisica la sua esistenza.

Il niente si svela nel fondo dell’esistenza.

Il niente rivela l’estraneità dell’essente.

L’esistente si stupisce dell’essente e chiede: perché sì piuttosto che no? di ciò che ricerca l’uomo scopre il niente in sé, allora l’essere gli appare strano, cioè l’uomo esce dall’essere (trascendenza metafisica).

La metafisica (p. 33) è l’accadimento fondamentale dell’uomo, è l’uomo stesso. Perciò l’uomo non può potrare la metafisica davanti a sé né trasferirsi in essa: l’uomo è in essa.

La filosofia (p. 34) mette in moto la metafisica. I momenti sono: 1) l’essente nella sua totalità; 2) la scoperta del niente.

 

NULLA (Abbagnano)

Nulla = neutro plurale da nullus

Niente = da ne-inde

 

Due concezioni in storia della filosofia:

(A) nulla come non essere, nulla totale (assoluto), negazione di ogni oggetto. Cfr. Parmenide: il nulla non è, non è conoscibile né pensabile né esprimibile; la realtà è solo essere. Cfr. Gorgia: il non essere non è perché se fosse sarebbe insieme non essere e essere.

Tre usi di questo concetto:

- teologico

- metafisico

- moderno

 

Uso teologico (teologia negativa):

1) Scoto Eriugena identifica Dio con il non essere cioè come negazione di tutte le cose naturali;

2) in questo senso anche nella cabala e poi à maestro (meister) ECKHART e [Jakob] BöHME

Uso metafisico:

1) neoplatonici (PLOTINO) = la materia è il non essere, l’informe perchè privo di tutti i caratteri che l’essere possiede;

2) in questo senso anche AGOSTINO

Uso moderno:

HEGEL che risolve l’essere nel divenire; indissolubilità dell’essere e del non essere nel divenire; ogni essere per essere deve cessare di essere per essere diverso da quello che era. In Hegel c’è il teorema che il nulla è il fondamento della negazione e non viceversa.

Tale teorema, accettato da HEIDEGGER, definisce il nulla come la negazione radicale della totalità dell’esistente, ma costituisce anche il fondamento dell’essere e precisamente dell’essere dell’uomo in quanto è instabile. L’instabilità è vissuta nella situazione emotiva dell’angoscia; il nulla è vissuto dall’uomo in quanto l’uomo non è, e non può essere, tutto l’essere.

L’essere dell’uomo consiste nel non essere l’essere nella sua totalità. Consiste cioè nel nulla dell’essere; perciò il nulla è la condizione che rende possibile la rivelazione dell’uomo come tale.

SARTRE sostituisce alla nozione di uomo come esistenza quella di uomo come coscienza; in sostanza ripete Heidegger.

 

(B) nulla come alterità o negazione, nulla parziale (Platone).

Il non essere è, è l’altro dall’essere, è la negazione di un essere determinato, è privazione di qualcosa come per es. l’ombra è non luce.

Il nulla è dunque un oggetto: cfr. FREDEGISO di Tours, IX sec. = il nulla è qualcosa; e BERGSON = accetta il nulla parziale (il nulla totale è una psudo idea, un assurdo come il circolo quadrato) e spiega che esso nasce a una preferenza (lato soggettivo) e da una sostituzione (lato oggettivo); si dice che non c’è nulla quando non c’è la cosa aspettata/preferita, essendo essa sostituita da un’altra.

Anche CARNAP (neopositivista), criticando il nulla di Heidegger, dice che la sola nozione di nulla logicamente corretta è la negazione di una possibilità determinata.

 

§§§

 

HEIDEGGER Martin

 

Nato nel 1889 a Meßkirch (Svevia) nel Baden meridionale e vissuto nella Selva Nera non lontano da Friburgo (capoluogo del Baden, Brisgovia). Seguì nell’università di questa città i corsi di Heinrich Rickert [neokantiano], ma vi subì soprattutto l’influsso della fenomenologia di Husserl. A Husserl infatti si richiama esplicitamente la sua opera fondamentale: Essere e tempo (1927). A questa opera incompiuta per la parte che riguarda il senso dell’Essere in generale, Heidegger fece seguire alcuni saggi:

1929: Kant e il problema della metafisica; L’essenza del fondamento; Che cos’è [la] metafisica?

1937: Hölderlin e l’essenza della poesia

1942: La dottrina platonica della verità

1943: L’essenza della verità

1947: Lettera sull’Umanesimo

1950: Holzwege (Sentieri nel bosco [interrotti])

1953: Introduzione alla metafisica

1954: Che cosa significa pensare?; Lezioni e appunti

1959: Sul linguaggio

1961: Su Nietzsche

Heidegger nel 1915 diventa libero docente a Friburgo; un anno dopo diventa assistente di Husserl; tra il 1923 e il 1927 professore a Marburgo e dal 1928 al 1945 docente a Friburgo.

 

[Segue una quindicina di pagine con appunti, commenti e note esplicative relativi a Heidegger tratti dai seguenti autori e libri:

- Vittorio Mathieu (1923)

- Michele Federico Sciacca (1908-1975) da La filosofia oggi, vol. I, pp. 249 e 273

- Giuseppe Faggin (1906-1995)

- Sommario di filosofia, vol. III del Lamanna che era il manuale adottato da Menon]

Gian Giacomo Menon nacque nel 1910 a Medea (Gorizia), allora territorio austriaco. Dal 1937 all’anno della morte (2000) ha vissuto e insegnato a Udine.
Pensiero individualista, solipsista, pragmatista, sostenitore della isostenia dei logoi, definiva così i suoi «segnali di vita»: casualità, nudità, paura.

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