Caro Cesare [Sartori],

                                          ho atteso a rispondere al messaggio  con il quale hai trasmesso il testo dello scritto di Heidegger con le annotazioni fatte in classe, perché non mi sembrava sufficiente limitarmi a ringraziarti per il regalo ricevuto, importante e prezioso, e darti atto ancora una volta della generosa dedizione con cui ti occupi di preservare e far conoscere l’«eredità» che Menon ha lasciato e, in questo caso credo possiamo proprio dire, ci ha lasciato. 
Hai fatto un regalo a tutti noi «menoniti», perché hai saputo affrontare il tema che, come ti ho già detto un’altra volta credo, mi sta più a cuore quando si parla e si vuole riflettere sulla figura di M.: per quanto possa apparire riduttivo, in presenza di una vicenda biografica come la sua e di una produzione poetica così ricca, ho sempre ritenuto che una riflessione approfondita sul nostro rapporto con lui, cioè sulla nostra esperienza con l’insegnante liceale, anche se limitatamente al breve periodo che ci ha coinvolto, fosse «giusta e dovuta»; e che potesse risultare di qualche interesse anche per quelli che, avendo conosciuto M. in circostanze diverse e magari solo indirettamente,  sono rimasti colpiti, attratti o incuriositi dalla sua personalità.

     Ho voluto, perciò, prima di buttare giù i brevi spunti che seguono – nati da riflessioni private che ripetutamente nel corso degli anni mi è capitato di fare, allorché per qualche strana associazione di idee mi si ripresentavano di colpo nella mente, nelle circostanze più diverse, impressioni e immagini legate alla figura e all’insegnamento di M. –  rileggere con attenzione il testo di Heidegger corredato dalle note da te curate. Ecco il risultato.

Trieste,  15 ottobre 2014

Giuliano Abate [1]

 


Chi era Menon?

 

(Introduzione)
Si potrebbe dire, applicando il metodo adottato dallo stesso Heidegger per rispondere alla domanda: che cos’è la Metafisica, che se volessimo scrivere un saggio titolato «Chi era Menon?»  dovremmo analogamente proporci non di parlare «su Menon», ma porci di fronte a una «lezione menoniana determinata» e lasciare che in tal modo la figura dell’uomo e dell’insegnante «si riveli da sé stessa nella sua totalità», tanto per usare il gergo per iniziati dell’esistenzialista tedesco, che, a dir la verità, ho trovato ostico, rileggendolo oggi, come mi era risultato ostico allora, circa cinquant’anni fa.
I miei spunti di riflessione partono proprio dalla suddetta impressione:  perché scegliere di infliggerci un testo così «difficile» (perché è difficile, ammettilo). Come si spiega una simile scelta, considerato che apparentemente si pone in contrasto con un indirizzo che M. aveva seguito, secondo me con assoluta coerenza, nell’arco dei nostri tre anni: indirizzo testimoniato non solo dalle precedenti letture scelte per la parte monografica del corso di filosofia, che avevano riguardato testi e autori considerati, per sua stessa ammissione, «facili» (L’Epistola a Meneceo e i frammenti di Epicuro, i Pensieri di Pascal); ma un indirizzo principalmente riconoscibile nella «tecnica» di base dell’insegnamento menoniano, quella adottata per i corsi generali di storia della filosofia e di storia e fondata sulla coerente e assoluta adesione alla lettera testuale dei due manuali:  il Lamanna, nonostante che M. stesso riconoscesse che impostazione e linguaggio di quel testo appartenevano a una tradizione non più del tutto al passo con i tempi. E, peggio ancora, il corso di storia del Silva, di cui certamente M. non condivideva l’orientamento conservatore e talvolta reazionario, ma cui attribuiva tuttavia il pregio di essere, appunto, il più facilmente accessibile alla lettura e alla comprensione di ragazzi come noi (confrontato con altri testi in voga, come  ad esempio l’allora più moderno Saitta, considerato da M. troppo, o forse troppo inutilmente, impegnativo)

(La fama)
Dunque, impostazione tradizionale e testi facili, accessibili forse anche indipendentemente dalla mediazione delle spiegazioni e del commento dell’insegnante. 
Il mio amico Giampaolo [Borghello] [2], tre anni avanti a me, mi aveva avvertito, quando ancora frequentavo il biennio del ginnasio:  «Al liceo, nella tua sezione A, ti troverai a fare filosofia con Menon, uno che non spiega ma si limita a far leggere il manuale». Questa era la fama che lo precedeva e che girava a scuola, insieme con i tanti aneddoti sulle stranezze dell’uomo che metteva il voto a ciascuno solo dopo averlo guardato, sì e no per circa dieci secondi, nell’unica ora riservata alle interrogazioni, alla fine di ogni trimestre.
La fama era più che meritata. Per uno che a 15 anni, animato da ingenua e giustificata curiosità, si fosse aspettato di essere introdotto allo studio dei «grandi» temi della filosofia, l’impatto dell’incontro con M. non poteva essere più spiazzante e sconcertante: la sua «introduzione alla filosofia» consisteva in una specie di  «guida alla presa in carico» del primo volume del manuale; del vero e proprio libro, in quanto «contenitore» o «involucro» della materia, le cui caratteristiche esteriori e formali si veniva sollecitati a considerare accuratamente e ad apprezzare nei minimi dettagli, prima di pensare ad addentrarsi nel suo contenuto: titolo, caratteri di stampa, qualità della carta e altri singoli aspetti della copertina e del frontespizio insomma, elementi pratici di bibliologia. Quanto alla materia da studiare – il vero contenuto del manuale – anch’essa veniva prevalentemente definita e descritta in termini strettamente quantitativi: numero di pagine di testo, da misurare in rapporto al corrispondente arco temporale coperto dalla trattazione.
«La filosofia antica comincia a pagina… e finisce a pagina…;  in totale occupa… pagine, che divise per il numero complessivo di ore del corso annuale, fanno… 4,5 (se ricordo bene)  pagine all’ora”», ma anche: «La filosofia antica comincia nel 585 a.C. e finisce nel 529 d.C.  La filosofia medievale comincia nel 529 d.C. e finisce nel 1453». 
Tutto ridotto a termini elementari ed essenziali, ostentatamente semplici e perciò assimilabili come dati certi, non suscettibili di letture vaghe o interpretazioni confuse ed equivoche. A noi il compito di leggere le 4,5 pagine di ciascun segmento della materia per conto nostro, a casa, e alla  successiva ora in classe prendere l’iniziativa della presentazione di specifiche «richieste di spiegazione», per le quali si era invitati a fare apposita «domanda» («Domande! Fate domande!», era l’ultima frase con cui accompagnava la sua plateale uscita dall’aula, al termine dell’ora durante il primo trimestre della prima liceo); e la «domanda» doveva seguire un preciso rituale, da rispettare come quando si riempie un modulo prestampato, identificando  innanzitutto – con l’indicazione del numero della pagina e del paragrafo o della riga –  il punto esatto del testo che ci era risultato incomprensibile o non chiaro. 

(La lezione come sacra rappresentazione)
Il nostro approccio allo studio della filosofia veniva così dall’inizio guidato, si dovrebbe anzi dire ‘costretto’, lungo un itinerario strettamente regolato: in primo piano c’è l’allievo che affronta il testo del manuale, e lo affronta da sé; deve accettare e abituarsi all’idea di essere lui il soggetto responsabile del processo, lui che con le proprie risorse deve misurarsi con l’oggetto da conoscere e che, inevitabilmente, si trova e si troverà sempre di fronte a punti oscuri o ad ostacoli alla comprensione, che deve comunque saper consapevolmente «identificare». Quindi, l’allievo fa domande. E di fronte a lui c’è l’insegnante,  che «risponde». «Spiegare» per M. equivale a «rispondere» . «Trattare la materia» equivale a «partecipare alla ricerca della soluzione di un problema» il cui contenuto è stato in qualche modo posto, colto, percepito, intuito dall’alunno. A quest’ultimo, anche se non sempre se ne rende conto,  spetta, nella sacra rappresentazione, il ruolo di  attore protagonista. 
Descritto così, lo schema della lezione di filosofia risulta essere banale e ripetitivo. Infatti non ammette varianti. È un gioco con poche semplici regole, che costringono i giocatori entro ruoli fissi rigidamente determinati: è così perché, con M., per poter iniziare a parlare di filosofia è necessario che il terreno su cui ci si muove  sia accuratamente circoscritto; e che la posta in gioco, la materia da trattare, sia prima di tutto misurata e resa suscettibile di precise determinazioni «quantitative», che ne consentano la scomposizione in elementi certi. 
M. «recita» il suo ruolo servendosi di testi «facili» e si diverte a disegnare alla lavagna schemi elementari di inquadramento temporale e tematico dell’oggetto di studio. Lo fa consapevolmente, per una scelta di metodo «tattica», funzionale allo scopo di rendere possibile la più rigorosa applicazione delle regole della singolare rappresentazione che va in scena in classe: si parte da premesse semplici e si rimane aderenti a nozioni elementari, ma questa apparente semplicità rende poi possibile lo svolgimento e il dipanarsi di una trama libera, che ripropone ogni giorno in modo imprevedibile l’esperienza originale di un incontro e di un dialogo alla pari tra un insegnante/mago da una parte e allievi più o meno ingenui dall’altra. 
La scenografia è essenziale, fortemente simbolica. L’insegnante va ogni giorno a cercarsi un posto tra gli allievi, non li guarda dalla cattedra o, come usano i docenti più alla mano,  passeggiando avanti e indietro tra le file dei banchi mentre parlano o pontificano. No. Menon si piazza fisicamente vicino a uno o una di noi, scegliendolo/la di solito per la posizione centrale; e «si pianta» tra i banchi  come il perno della giostra che sta per iniziare a girare. Sta sul nostro stesso piano e  sembra che voglia sfidarci, offrendosi come un bersaglio, a nostra totale disposizione, 
Pretende «soltanto» – e non è certo una pretesa da poco – che le domande e le osservazioni con cui apriamo il gioco siano poste in modo rigoroso, nel rispetto di una severa disciplina formale, che scopriamo essere scientificamente studiata. In questo modo, ottiene che si creino le condizioni elementari di «sicurezza» per potersi lanciare in quel numero impegnativo che sta per iniziare. 

(Esperienza alpinistica)
«Sicurezza». Come fa una guida alpinistica, nell’intraprendere una scalata alla testa di una cordata di principianti, sapendo che ogni salita ha le sue insidie per tutti, lui per primo. Una volta fissata «la sicurezza», la guida comincia ad avanzare, ad arrampicarsi, prima piano saggiando il terreno, poi, con sempre maggiore scioltezza, sempre più in alto. Sembra assorto, nella sua arrampicata, ma ogni tanto si rivolge verso i suoi giovani compagni, invitandoli con lo sguardo a seguirlo. Loro non parlano, sono attenti e concentrati, ‘calamitati’ letteralmente dai suoi movimenti agili, precisi e sicuri; mentalmente li registrano, pensano che prima o poi saranno loro a doversi mettere a loro volta alla prova. Si sale, così, di lena e quasi senza soste per un’ora intera, ma con quella guida l’arrampicata è leggera, non ci si rende conto dello sforzo. Anche lui sembra divertirsi, lo si intuisce qualche volta dallo sguardo compiaciuto e un po’ beffardo che rivolge di tanto in tanto a quelli che gli tengono dietro con maggiore prontezza, che sembrano apprezzare di più l’itinerario che quel giorno ha scelto di fare. Ogni giorno un itinerario simile, eppure sempre diverso, sempre originale, sempre inaspettato. 
Altro che banale e ripetitivo. È un allenamento costante, quotidiano, metodico, condotto con straordinaria serietà, anche se si mantiene quasi sempre su percorsi apparentemente facili, sembra voler evitare passaggi troppo impegnativi e rischiosi. Ci sarà tempo anche per quelli. La guida non lo dice ma lo fa capire: oggi non ve li godreste, sarebbero una fatica inutile senza la soddisfazione di arrivare in cima, imparate prima a saggiare bene il terreno, a familiarizzarvi con ogni genere di ambiente e di tempo e, seguendo le mie raccomandazioni, godetevi anche tutto quello che di più interessante si offre nel panorama che ci circonda. 

(«Che cos’è la metafisica»)
È così che arrivati all’inizio del terzo anno,  ci è stato annunciato, senza tanti preamboli, che avremmo «scalato» il temuto Heidegger. Chi l’avrebbe detto. Se a uno di noi fosse passata per la testa un’idea simile e l’avesse proposta lui come lettura di classe, dubito che M. si sarebbe trattenuto dall’espellerlo dall’aula, seduta stante. Chissà invece come gli è venuto in mente, sarà accaduto forse che per  suo divertimento avrà deciso di fare un po’ di esercizio e di dimostrare (a sé stesso) che avremmo potuto farcela tranquillamente, come bere un bicchier d’acqua. 
Così è, infatti. Scopriamo di essere allenati a usare la tecnica di studio a cui ci ha incessantemente abituato: misurare con cura la distanza da percorrere, suddividere il tracciato in parti, attenersi alla lettera del testo. In classe, collocato strategicamente, M. legge, scandendo le frasi e le parole chiave, assicurandosi che ne comprendiamo bene il pieno significato.  
Senza quasi rendercene conto ci troviamo immersi nel discorso di Heidegger e riusciamo a seguirlo passo passo mentre si dipana, senza mai perdere il filo, come giovani esecutori orchestrali che affrontano per la prima volta uno spartito musicale ostico sotto la guida di un direttore prestigioso che invece già lo conosce a memoria.
Ci sono passaggi più facili, in cui è possibile riconoscere la corrispondenza o l’analogia con concetti già studiati, il rifermento a problemi classici della storia del pensiero e agli autori che sia pure superficialmente abbiamo imparato a conoscere. M. li sottolinea sistematicamente questi passaggi, ce li fa notare quando si nascondono tra le righe del testo, ci rinvia alle pagine del Lamanna, ai luoghi dove li abbiamo originariamente incontrati e studiati, permettendoci così di usarli come «appigli» insperati, cui afferrarci saldamente per  avanzare con più sicurezza nella comprensione del testo. E ci sono punti «difficili» in cui si avverte il rischio di rimanere bloccati come davanti a un muro. In questi passaggi cruciali, di grado superiore, M. apre decisamente la strada formulando  delle accurate parafrasi del pensiero espresso dall’autore, in termini rigorosamente aderenti al significato dell’originale. 
Non che da parte sua lasci intendere di voler prendere minimamente posizione sul merito di quel pensiero.  Anzi, al contrario del Carlini, curatore di quell’edizione del testo e delle note  (lo «pseudo-Carlini» – lo chiameremo noi per non confonderlo con il «mitico» [3] - il quale ogni tanto nell’interpretare si permette anche di correggere Heidegger o di commentare criticamente certi passaggi dell’opera), con la sua rigorosa lettura M. mantiene, invece, la più scrupolosa neutralità: si preoccupa che, per il tramite dell’elementare parafrasi del testo da lui proposta, il pensiero originale dell’autore ci arrivi puro e intatto come se lo ascoltassimo direttamente di persona dalla sua viva voce.

(Conclusione)
«Lettura di Heidegger», dunque,  come esemplare saggio di applicazione della «menoniana ἐποχή», che non significa atteggiamento distaccato e scettico verso l’oggetto trattato, ma al contrario corretto avvicinamento all’autore e testimonianza di autentica rispettosa comprensione del suo pensiero.  
Ma anche «lettura in classe di un testo di filosofia» come «disvelamento» (ἀλήθεια) dell’atteggiamento di profondo rispetto e di affettuosa simpatia che Menon nutriva verso i suoi allievi; e, in questo, avvicinamento alla verità cercata con la domanda iniziale: chi era Menon?

 

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Cervignano, 16 ottobre 2014

Caro Giuliano,

                           ti ringrazio davvero per questo inatteso regalo. Un ricordo stupefacente nella sua accurata precisione e nello scandaglio rigoroso del metodo Menon.

In questi ultimi anni, dovendomi occupare in corsi per insegnanti della cosiddetta didattica per competenze, mi è capitato spesso di pensare quanto il nostro prof. abbia anticipato, certamente con un’interpretazione del tutto personale, alcuni fondamentali e recenti orientamenti della didattica.

Tu scrivi che allo studente spettava, per M., «il ruolo di  attore protagonista»: oggi, nelle Indicazioni nazionali si parla di  «attivare processi didattici in cui gli allievi diventano protagonisti e superano l’atteggiamento di passività e di estraneità che caratterizza spesso il loro atteggiamento di fronte alle lezioni frontali».

«Trattare la materia» equivale a «partecipare alla ricerca della soluzione di un problema»: una delle otto competenze di cittadinanza della normativa italiana è «risolvere problemi (affrontare situazioni problematiche costruendo e verificando ipotesi, individuando le fonti e le risorse adeguate, raccogliendo e valutando i dati, proponendo soluzioni utilizzando, secondo il tipo di problema, contenuti e metodi delle diverse discipline)».

Ma certamente nel suo approccio erano implicite anche altre competenze chiave: imparare ad imparare; acquisire e interpretare l’informazione; individuare collegamenti e relazioni; comunicare.

Menon «sta sul nostro stesso piano e  sembra che voglia sfidarci, offrendosi come un bersaglio,  a nostra totale disposizione», a quei tempi una vera rivoluzione, oggi un orientamento pedagogico presente in tutti i documenti ufficiali, anche se poco praticato: «L’insegnante non è più considerato un disseminatore d’informazione, depositario indiscusso di un sapere universale, astratto e decontestualizzato. È piuttosto un facilitatore, un tutor, un coach e counselor, che guida l’allievo a riconoscere con consapevolezza e a ridefinire in modo riflessivo la trama delle sue competenze».

«In primo piano c’è l’alunno che affronta il testo del manuale, e lo affronta da sé»:  mentre per lungo tempo si è pensato che un insegnante che facesse leggere agli studenti il manuale fosse un incapace, oggi si ritiene che il bravo insegnante debba promuovere la capacità autonoma di lettura e interpretazione di testi scritti di vario genere, sollecitando interrogativi in merito. Come faceva appunto Menon.

Anche i suoi geroglifici, talvolta alla lavagna, più spesso sul quaderno di qualche allievo, possono considerarsi qualcosa di simile a quelle che oggi pomposamente si definiscono mappe concettuali.

Potrei continuare perché i punti di contatto con i più recenti indirizzi della didattica costruttivista sono davvero tanti. Ma ovviamente non bastano a far comprendere la grandezza della sua figura di insegnante. Piuttosto è vero l’inverso: un grande insegnante non è colui che applica le teorie pedagogiche più o meno innovative, sono le teorie a venir dedotte dalla pratica e dalla personalità di un maestro.

Ho suscitato meraviglia in molti insegnanti, colleghi della mia età o più giovani corsisti, quando affermavo che per me la didattica per competenze, proposta come una rivoluzione copernicana, faceva parte della mia antica esperienza al liceo classico Stellini di Udine: se i pilastri di quello che viene presentato come un metodo innovativo e alternativo, stanno sostanzialmente nel ruolo attivo dello studente (il cosiddetto laboratorio) e nell’approccio interdisciplinare, Menon, che ci ha aperto finestre su tutte le tendenze più innovative della cultura (e non solo della filosofia), ha anticipato di decenni le attuali proposte didattiche, lasciandoci comunque il grande interrogativo finale che condivido: «Chi era Menon?».  Come tutti i grandi maestri, irriducibile a un modello e a una corrente pedagogica.

 

Grazie ancora a Giuliano e naturalmente anche a Cesare.

Un abbraccio 

 

Gabriella Burba [4]

 

 

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Pistoia, 25 settembre 2014

Cari Gabriella e Giuliano, 

                                          pensando di farvi cosa gradita, vi allego il file con la trascrizione di Che cos’è (la) metafisica? di M. Heidegger (traduzione e  cura di Armando Carlini, La Nuova Italia, Firenze, terza ristampa gennaio 1967) con le note del curatore (in tondo) e il commento di Menon (in corsivo), che ho appena completato. 

Ho omesso la Prefazione di Carlini, ma ho trascritto le sue Osservazioni finali perché costituiscono in qualche modo una continuazione e un approfondimento delle sue note a piè di pagina. 

Ho tralasciato anche gli altri testi heideggeriani presenti nel volumetto della Nuova Italia – il Poscritto (Nachwort) del 1943, l’Introduzione (Einleitung) del 1949 e gli estratti dalla Lettera sull’Umanismo -, perché Menon al tempo non ce li fece studiare (sarebbe stata una prova troppo impegnativa per noi giovincelli di belle speranze e sono quasi sicuro che nessuno di noi allora si prese la briga o ebbe voglia di cimentarsi, neppure per diletto personale, con l’ardua scrittura del «gufo della Foresta Nera» – Zanzotto dixit -; il Was ist Metaphysik? bastava e avanzava. O no?).

 

Non appena il professor Marino Rosso [5] mi farà avere il suo commento, ve lo trasmetterò e poi inserirò il tutto nel sito dedicato a Menon.

 

Un caro saluto (e buona lettura!)

Cesare

 

 

[1]  Laureato in sociologia a Trento, ex funzionario della Regione Friuli-Venezia Giulia dove ha chiuso la carriera come direttore del dipartimento regionale centrale cultura, sport e solidarietà. Vive a Trieste.

 

[2] Ex stelliniano, normalista a Pisa, già direttore del dipartimento di italianistica dell’università di Udine.

 

[3] Ecco come, tra alcuni ex compagni di classe del liceo, è nata la «leggenda del Carlini». Lettera di Giuliano Abate ad Annamaria Pazienza, 27 luglio 2012: «C’era una volta una prima liceo, con tante interessanti e graziose ragazzine e uno sparuto gruppetto di maschietti, abbastanza ben educati, abbastanza timidi e abbastanza curiosi di conoscere il mondo in cui stavano entrando e di scoprire tutto quello che c’era di bello e divertente da scoprire. Una delle attrazioni principali di ogni giorno era l’entrata in scena di uno strano omino che padroneggiava con perizia gli strumenti dell’arte magica dell’insegnante e sapientemente li usava per suscitare intorno a sé un’aria appunto di magìa, con piccoli sortilegi, indovinelli e incantesimi, dai quali soprattutto i maschietti, che erano tra gli spettatori più ingenui e infantili, venivano facilmente impressionati e coinvolti. Un giorno l’omino raccontò, dando l’impressione di stare rivelando un importante segreto, che se qualcuno voleva avvicinarsi alla conoscenza della letteratura contemporanea  doveva avere letto almeno le opere fondamentali di quattro grandi autori della prima metà secolo corrente (nell’ordine Joyce, Proust, Kafka, Faulkner. Poi ne aggiunse un quinto, che ad alcuni parve di poter considerare, rispetto agli altri, come una riserva importante ma opzionale, un certo Svevo). I maschietti presero nota e alcuni di loro come erano soliti fare, durante i consueti conciliaboli pomeridiani, si scambiarono le informazioni raccolte per verificare di aver capito bene. Il giorno dopo qualcuno osò chiedere all’omino qualche informazione supplementare a titolo di chiarimento e di incoraggiamento per come affrontare le letture. Lui fece capire che non sarebbe stato da tutti, e mentre lo diceva, arricchiva il quadro tracciato il giorno prima con nuove figure e  aggiungeva altri nomi e suggestioni alla lista degli autori e delle opere da leggere. Le vacanze dovevano essere vicine, perché fece intendere che se uno si metteva d’impegno, in tre mesi avrebbe potuto fare molto, come aveva dimostrato di fare un suo studente del decennio precedente, un certo Carlini, che durante l’estate della prima liceo aveva letto una cinquantina di libri,  il che per l’omino rappresentava un risultato tutto sommato notevole. En passant disse, senza peraltro mostrare particolare considerazione per l’ex allievo, che questo Carlini aveva poi frequentato la Normale di Pisa e che adesso era in cattedra da qualche parte. Non ne fece in alcun modo un modello. Ma ciò non impedì che nella fantasia dei maschietti si stampasse l’immagine di una specie di eroe di un’altra epoca, passata per sempre, irripetibile. Non c’erano più le estati di una volta.  Solo uno di loro, che già allora si distingueva per caparbietà e cocciutaggine, comunicò ufficialmente agli altri, durante una seduta di riflessione, al termine di una delle prime gite in bici delle vacanze,  la sua intenzione di dare l’assalto al record di Carlini, sfidando gli altri a fare altrettanto. Non si è mai saputo se ci sia riuscito, ma io penso di no. Ce lo avrebbe detto».  Lettera di Annamaria Pazienza a Giuliano Abate del 1° agosto 2012: «Notizie sul Carlini (ma forse le conosci già): da una rapida ricerca su Google, dovrebbe trattarsi di un Antonio Carlini, nato a Udine, più vecchio di noi di quattordici anni, laureatosi in lettere a Pisa e poi docente alla Normale, prima di paleografia greca e latina, poi di filologia classica. Oggi fa tante cose ed è membro di varie associazioni culturali. Soprattutto si occupa di papiri antichi. Un tipo così, nei primi anni ‘50, potrebbe aver compiuto effettivamente l’ammirevole impresa. Non credo invece che il suo aspirante epigono ci sia riuscito. Ripenso con un po’ di nostalgia a quella prima liceo del ‘65-‘66, in cui un omino di talento [Menon], anche se di un irritante egocentrismo, sapeva rappresentare ai nostri occhi la cultura ed evocare, con pochi accenni, tutto un mondo di conoscenze da scoprire. Credo di aver sprecato  allora troppe energie nel difendermi dalla sua influenza, non certo per consapevole senso critico, ma perché confusamente avvertivo da parte sua un tentativo di manipolazione. Tuttora credo ci fosse, anche se non era saggio buttare il bambino insieme all’acqua sporca: sarebbe stata necessaria (almeno per me) la mediazione di un adulto attento agli atteggiamenti degli adolescenti, capace di spiegarmi che l’omino era fatto in un certo modo, che andava capito, che di lui si doveva prendere il meglio, ecc. Mah, com’è andata è andata».  Lettera di Cesare Sartori a Giuliano Abate del 2 marzo 2013: «O questa del Carlini non me la ricordavo proprio! Però tu mi hai stuzzicato e sono andato a ricuperare le carte che conservo gelosamente da 46 anni. L’intestazione (su foglio di protocollo a quadretti) è esplicita: “Libri letti dal 1° giugno al 4 settembre 1966”.: 16 di narrativa (ti cito soltanto gli autori senza i titoli: Bacchelli, Baudelaire, Buzzati, Cassola, Erasmo da Rotterdam, Gide, Camus, Hemingway, Kafka, Mann, Arthur Miller, Aulo Persio, Rimbaud, Sartre, Sciascia, Salinger); 5 di poesia (Cardarelli, Esenin, Majakovskij, Neruda, Quasimodo); 17 di teatro (Cechov, Ibsen, Machiavelli, Pirandello, Shakespeare, Shaw, Sofocle); 6 di saggistica varia (Arfè, Croce, Frankfort e altri, Marx-Engels, Bruno Snell); più 13 numeri della Fiera Letteraria (per quello che può valere). Totale 44 volumi (ho escluso dal conteggio la rivista). Quindi, sì, il silenzio (imbarazzato?) del personaggio in questione stava chiaramente a significare che non ce l’aveva fatta ad eguagliare il Carlini! A richiesta posso fornire anche la lista dei libri letti  tra il 4 ottobre 1966 e i primi mesi del 1968 (presumibilmente marzo-aprile, perché dopo quella data si cominciò seriamente a pensare all’esame di maturità e non ci fu tempo per “distrazioni”, sia pure di alto livello). P. S. Quell’estate ci fu un altro che accettò la sfida, mi tallonò (andavamo a leggere insieme nella zona dei grandi alberi sul Cormôr e forse mi superò nella maratona di letture: Mario [Blasone, architetto, morto di leucemia nel 1986]. Ma purtroppo non ho la sua lista anche se ricordo che molti libri ce li scambiavamo (ricordo però che lui si lesse un Benevolo di architettura, perché me ne parlò e io utilizzai una citazione da quel testo in un tema di italiano; ma forse mi confondo con le date e fu durante le vacanze tra la seconda e la terza liceo)».

 

 

 

[4]  Laureata in sociologia a Trento, dopo aver insegnato nelle scuole medie superiori, per molti anni è stata formatrice di insegnanti. Vive a Cervignano del Friuli (Udine).

 

[5]  Marino Rosso, già ordinario di filosofia del linguaggio all’università di Firenze nonché uno dei più autorevoli esperti e conoscitori italiani di Wittgenstein (ha tradotto e prefato in modo impareggiabile le Osservazioni filosofiche per Einaudi), al quale Sartori aveva fatto avere  la sua copia annotata di Che cos’è la metafisica?, così si è espresso a proposito del commento al testo fatto in classe (anno scolastico 1967-1968) da Menon: «È un’esperienza notevole leggere Heidegger in compagnia di Menon. Sarebbe bello se gli studenti di oggi potessero fruirne, anche se non so bene come: ci ha mai pensato? [E a Sartori che gli chiedeva di donare agli ex allievi del professore-poeta un suo commento sulle chiose menoniane,  Rosso ha anche scritto:] «[Il mio] è stato certamente un silenzio-assenso! Il silenzio è dovuto al fatto che mi sono piovuti addosso impegni urgenti della più diversa natura, che mi occupano tuttora. L’assenso, invece, è dovuto all’autentica ammirazione che ho per le note di Menon e alla soddisfazione che proverei nel contribuire a valorizzarle. Il dono lo state facendo voi a me. Prima o poi mi prenderò il tempo e il piacere di mettere in parole  tutto il bene che penso dell’eccellente accompagnamento menoniano al testo di Heidegger».

 

pennino & altri

Gian Giacomo Menon nacque nel 1910 a Medea (Gorizia), allora territorio austriaco. Dal 1937 all’anno della morte (2000) ha vissuto e insegnato a Udine.
Pensiero individualista, solipsista, pragmatista, sostenitore della isostenia dei logoi, definiva così i suoi «segnali di vita»: casualità, nudità, paura.

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