Fra ricordi ormai molto sfumati, quasi assurti alla dimensione mitica dell’età dell’oro, si staglia quello di Gian Giacomo Menon, che non rividi più dopo la maturità, ma a cui ostinatamente continuai a scrivere gli auguri di Natale (anche la mia una sorta di provocazione) all’indirizzo di via Leopardi. Ovviamente non mi rispose mai e, dopo qualche anno, i biglietti furono restituiti al mittente: indirizzo sconosciuto. Supposi che avesse cambiato casa e mi rassegnai. Ma per lungo tempo mi capitò di sentir parlare di lui, da una collega che lo aveva avuto come commissario esterno alle magistrali, e perfino da mio marito, che, avendo sempre odiato la filosofia, durante il triennio del Marinelli, fu spedito dalla madre a lezioni private da Menon. Con esiti disastrosi e reciproca insofferenza fra docente e discente. Mia suocera, per farsi perdonare quello che riteneva un atteggiamento maleducato del figlio, inviò a Menon un mazzo di fiori. Mi sarebbe piaciuto assistere alla scena del Menon che riceveva un fioraio.
Questa premessa per dirvi che capisco benissimo le reazioni e i ricordi contrastanti provocati in ciascuno di noi da una figura così eterodossa. Tanto che mi sono spesso chiesta come mai, pur nella piena consapevolezza dei suoi eccentrici e almeno apparentemente crudeli atteggiamenti personali e didattici, il suo ricordo prevalga su quello di tutti gli altri insegnanti.
Certo, ricordo anche la Pezzali, ma più per episodi come lo “svenimento” di Lella che per la sua figura di insegnante. In fondo il tipo Pezzali era piuttosto consueto nella mia esperienza giovanile: non dissimile dalle matriarche austroungariche della mia famiglia, che proponevano lo stesso stile nell’abbigliamento e nei rapporti con i maschi. E anche Tarcisio Petracco, di cui apprezzavo molto sia lo stile didattico sia i lunghi racconti delle sue avventure per mare o dell’incidente che gli aveva lasciato in eredità una faccia un po’ sbilenca, non costituiva un tipo umano tale da sorprendermi.
Menon invece sì. Tutto in lui era una provocazione. Per me, che provenivo da un piccolo mondo tradizionale e perbenista, cattolico e democristiano, fu forse la prima occasione di incontro-scontro-confronto con l’approccio che poi fu definito dei “maestri del sospetto”, della messa in discussione di qualsiasi certezza, dell’apertura alle correnti di pensiero più innovative ed inquietanti. Anche in questo senso, e non solo per l’influenza che esercitò sulla mia scelta universitaria, mi preparò alla ben più ampia rottura con i paradigmi tradizionali che mi avrebbe interpellata nella Trento sociologica del ’68. Paradossale invero che proprio la contestazione del ’68 abbia messo sotto accusa metodi didattici come i suoi. Ricordate le sue premesse riguardo al comportamento in classe? Più o meno: segua chi è interessato, gli altri facciano pure ciò che vogliono, ma senza disturbare. Poi, un giorno, scoprendo che qualcuno, e non era la prima volta, lo aveva preso alla lettera e stava palesemente studiando un’altra materia, afferrò il libro del malcapitato/a (non mi ricordo chi fosse), aprì la finestra, forse salì anche su una seggiola per svolgere meglio l’operazione, e gettò il libro in strada. Con lui duellavo spesso sul ruolo delle donne, viste le sue frequenti battute maschiliste. Era esclusa a priori ogni mia possibilità di convincerlo. La cosa più “carina” che mi disse in proposito? “Burba, ho avuto altre studentesse intelligenti come te. Poi, dopo qualche anno le ho incontrate che spingevano una carrozzina. Che schifo!”
Già allora supponevo che il suo atteggiamento continuamente provocatorio e a volte decisamente offensivo fosse una maschera, dietro la quale si nascondevano una grande infelicità e una grande solitudine. Non dimenticate mai che allora ero pervasa da buoni sentimenti cattolici! Perciò un giorno, dopo averlo sentito declamare “Il sole un bottone d’ottone lucente”, gli chiesi di portare in classe le sue poesie per leggercele. Da parte mia non c’era alcun vero interesse, amo più la poesia classica che le cosiddette avanguardie, ma un messaggio relazionale. Ritenevo infatti che chiunque scrivesse fosse felice di avere un uditorio. La risposta: “E tu cosa mi dai in cambio? Vedi, se tu andassi a letto con il nipote di Mondadori, la cosa avrebbe un senso…”
Un’altra volta gli chiesi invece delucidazioni sull’antologia di Spoon River, che citava spesso. La lezione successiva ero a casa ammalata. Voi mi riferiste la scena: arrivò con una borsa piena di libri su Spoon River, mi chiamò più volte, ben consapevole del mio posto vuoto, per commentare alla fine “Burba, mi hai fregato.”
In un unico caso mi portò alle lacrime. Quella mattina avevo perso la corriera insieme a mia sorella, cui fungevo da sveglia. Mia madre decise di portarci in macchina per l’autostrada. Mezzo in avaria, carro attrezzi, arrivo a scuola alle 10.00. Per me era una catastrofe ed ero già nervosissima. Menon si dilettò a chiedermi più volte come mi fosse passato per la testa di arrivare a scuola a quell’ora, concludendo che avrei fatto meglio a restarmene a casa. Uscii dall’aula con evidenti segni di pianto da stress. Mi pare che allora si fosse reso conto di aver passato il segno.
Delle sue lezioni di educazione civica (materia negletta da quasi tutti gli insegnanti) ricordo solo le continue citazioni della XII disposizione finale della Costituzione: “È vietata la riorganizzazione, sotto qualsiasi forma, del disciolto partito fascista.” E poi l’esclamazione sardonica: “E il M.S.I.? Cos’è il M.S.I.?”
Mia madre fu forse l’unica ad andare al colloquio previsto per i genitori, dopo che io le avevo detto che Menon non voleva vedere nessun genitore. Dovette farlo cercare perché non presumeva che qualcuno potesse violare il divieto. E l’accolse con parole di rattristata cortesia: “Signora, lei è l’unica, una goccia d’acqua nel deserto, ma una goccia non basta a dissetare. Esco adesso dalla classe di sua figlia, dove ho detto che è l’unica che capisce qualcosa di filosofia.” (Figuriamoci!)
In terza liceo io e Giuliano avevamo manifestato l’intenzione di iscriverci a sociologia. Mi disse due cose a proposito, una delle quali rivelò un insospettabile animo lirico: “Salutami Trento. Vedrai com’è bella in autunno. E salutami il mio amico Carlo Tullio-Altan.” Con Altan mi sarei poi laureata, ritrovando nell’antropologia culturale la mia vecchia passione per la filosofia. E questa penso sia la seconda motivazione del mio pregnante ricordo di Menon. Lo studio della filosofia (non saprei dire quanto per le sue caratteristiche intrinseche e quanto per il modo di presentarla del nostro) ha rappresentato per me la scoperta del mio modo di essere, di una weltanschauung che era già mia, anche se non tematizzata. Riconobbi me stessa prima in Platone, poi in Cartesio e infine in Kant. La sociologia della conoscenza spiegherebbe questo senso di riconoscimento, di deja vu, con l’imprinting del mio ambiente culturale. Nei contesti cattolici avevo respirato il dualismo anima-materia, il mito della caverna, il mondo delle idee, il razionalismo nemico degli istinti (educazione ferrea all’autocontrollo), e soprattutto il Tu devi. Un mix terrificante. Ho passato i successivi 20 anni della mia vita nel tentativo di destrutturare questa visione del mondo. Ma la ricerca della verità, che ritengo un aspetto fondante della filosofia, mi ha perseguitato, nonostante avessi optato per sociologia, scegliendo la giustizia e l’impegno sociale, proprio nel tentativo di sfuggirla. Quindi non so se grazie a Menon o nonostante Menon, la mia preparazione in filosofia per l’esame di maturità era molto buona. Aldilà delle mille critiche che si possono rivolgere ai suoi metodi didattici, ritengo che alcuni approcci fossero molto intelligenti anche se non funzionavano con tutti gli studenti. Le sue lezioni non avevano nulla in comune con i libri di testo, né in storia né in filosofia. Poi ci diceva: studiate fino a pag. tot e chiedetemi quello che non avete capito. Un metodo eccellente per promuovere il senso critico. Io passavo ore a leggere i libri e confrontare gli autori fra loro per cogliere eventuali discrepanze. Talvolta mettevo a confronto anche il testo di storia con quello di filosofia per scovare le possibili contraddizioni.
Non so quanti di voi ricordino cosa avvenne agli esami di maturità in filosofia. Prima di noi furono interrogati gli studenti di un’altra terza (credo la B). I problemi con la commissaria di filosofia furono così diffusi che venne pubblicato un articolo sul giornale. Mi sembra invece che in classe nostra la situazione fosse molto migliore. Dopo Menon eravamo preparati a tutto.
(17 nov 2011)

 

La lettura dell’articolo di Sgorlon mi ha fatto affiorare dalla memoria un’altra delle apodittiche affermazioni di Menon: l’umanità si distingue in due categorie, velleitari e non velleitari. L’unico non velleitario sono io.
(15 novembre 2011)

 

Provo per Menon gli stessi sentimenti (anzi li provavo già allora), fascinazione e compassione, gratitudine per gli orizzonti che mi (ci) ha aperto, tristezza per il sottofondo di disperato e beffardo cinismo che traspariva dai suoi atteggiamenti e che ha segnato la sua vita.
Ti segnalo altri ricordi da rispolverare. Ci raccontò  che un’unica volta l’avevano nominato commissario interno agli esami. Col suo solito riso sardonico si divertì ad informarci che aveva scritto i giudizi sugli allievi in termini vegetali: cavolo, carota, testa di rapa, broccolo ecc. Ovviamente fu l’ultima volta, ci disse, che gli chiesero di fare il commissario interno.
Uno degli autori di cui ci parlò molto era Dostoevskij, in particolare “Delitto e castigo”. Si divertiva a chiederci come Raskolnikov avesse ucciso la vecchia usuraia. “Con un’accetta? No, no, non è un’accetta. Un’ascia, è un’ascia.”
Gli insegnanti di oggi credono, almeno alcuni, di aver scoperto, in base alle ricerche pedagogiche più recenti, l’importanza dell’autovalutazione. Io mi ricordo quanto mi metteva in difficoltà Menon quando, nelle sue mitiche interrogazioni di, più o meno, un minuto a testa, mi chiedeva: “Burba, che voto ti metti?” Io arrischiavo un sette ed è il voto che con lui ho sempre avuto in pagella. Poi all’esame mi hanno dato nove sia in storia sia in filosofia. Ma in realtà non mi interessava per nulla il voto, mi interessava la sua stima. E se un insegnante produce questo risultato, i suoi metodi, per quanto stravaganti, non sono certo da buttar via.
Ci disse anche, a proposito di storia, cui certo anteponeva la filosofia, che alcuni anni prima aveva tentato di cambiare il libro di testo, adottando il Saitta (credo fosse un libro di ispirazione marxista, quindi senz’altro a lui più congeniale). Ma per gli studenti era troppo difficile, per cui ritornò al Silva, che certo non era un granché. A dire il vero neppure il Lamanna era un gran libro. Se l’insegnante non fosse stato Menon, avremmo un’idea molto povera della filosofia. Oggi i libri sono molto migliori, gli studenti (e forse anche gli insegnanti) peggiori.
(20 novembre 2011)

Gabriella B.

Gian Giacomo Menon nacque nel 1910 a Medea (Gorizia), allora territorio austriaco. Dal 1937 all’anno della morte (2000) ha vissuto e insegnato a Udine.
Pensiero individualista, solipsista, pragmatista, sostenitore della isostenia dei logoi, definiva così i suoi «segnali di vita»: casualità, nudità, paura.

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