Oggi ho assistito a un miracolo, di quei miracoli che il Sacro se lo tirano dietro a fondo, nell’anima dico; nell’intimo buio dell’anima che è la grotta di Antigone, e lo illuminano. Ho assistito, signori miei, a una resurrezione. Forse la carne non si è ridestata dal nulla dov’è stata cacciata, forse non ci hanno spaventato fenomeni paranormali. Ma la resurrezione di un poeta non è cosa da tutti i giorni. Mi tolgo un sassolino dalla scarpa (che di poeti ce n’è pochi, via!): finalmente si parla di poesia! E pensare che oggi [mercoledì 25 marzo 2015] a palazzo Garzolini in Udine, la poesia – che strano – v’è entrata di striscio. Dico che proprio si son letti pochi versi, eppure abbiamo conversato per due ore di Poesia. Imparino gli asini stampatori: esistono poeti che vissero in carne e ossa su questa terra, che scrissero versi, eppure tutta la loro poesia la consegnarono concretamente in «essere e volere» a studenti dei loro corsi liceali di filosofia.

Gian Giacomo Menon sarebbe sconosciuto a tutti noi (vivrebbe riverbero nella fiammella dei ricordi liceali di qualche manipolo di suoi ex allievi) se non fosse per la dedizione di Cesare Sartori: ex allievo di Menon, ex studente del liceo classico Stellini di Udine, già giornalista della «Nazione» di Firenze. In lui la fiammella ha acceso un fuoco di divampo, ha fatto brillare quel di più che si cristallizza sotto il nostro sguardo in concreta riconoscenza. Cesare è un’anima antica, e di questa definizione mi scuserà, ma sono certa che già comprende, già sorride: vibra di quella sostanza antica immutabile (diluita assai in questi tempi di liquidità mediatica, eppure sempre vigile, attiva), quella sostanza alchemica che ridesta in oro lo spirito che l’umano declassa, eclissa, su cui incespica insicura e malferma. Ha saputo riconoscere la canina ricerca d’umanità – per dirla alla Boine – che era viva in Menon, e farsene carico. Come in un romanzo egli arriva in ritardo all’appuntamento: torna alla casa del maestro quando ormai il maestro è morto. Pure, il maestro lascia a lui l’incarico ideale e l’eredità delle proprie carte. Decenni di soliloqui eccellenti, decenni di canina ricerca d’umanità.

Ma quanto è stato donato (dono, da educere latinamente inteso), non importa il tempo, torna in forma precisa, torna a chi diede e (ancora) a chi ricevette. Le mani colme d’intera umanità. Io credo fermamente che questa sia la Poesia.

 

Oggi, dalle 10.30 circa a Palazzo Garzolini-di Toppo Wassermann a Udine, si è tenuto un ricordo del poeta Gian Giacomo Menon. Presenti in sala ex allievi, studenti universitari e liceali, oltre ad un pubblico di curiosi e appassionati. A raccontare Menon accanto a Cesare Sartori, professori quali Antonio Carlini (nella sua triplice veste di ex studente dello Stellini, di filologo classico della Normale di Pisa e di Accademico dei Lincei), Franco Bombi, nipote del poeta e già docente di ingegneria dell’informazione nell’ateneo padovano, Pino Santoro dirigente del liceo classico Stellini, Gabriella Burba insegnante e poetessa e anche lei ex allieva di Menon, Gianni Cimador ricercatore all’università di Trieste.

Menon fu professore di storia e filosofia prima al liceo Stellini per 30 anni di fila e  successivamente fino alla pensione al liceo magistrale Caterina Percoto, sempre di Udine; scrisse versi – e non solo per questo fu poeta – che non pubblicò se non in minima parte. Si pensi che esistono centinaia di migliaia di versi inediti, una piccola porzione raccolti e pubblicati nel 2013 grazie alla cura di Sartori per i tipi della Aragno e KappaVu.

Il fulcro della conferenza sono stati i ricordi, la mnemosine di omerica ascendenza, la partecipazione corale di un popolo di ex studenti, a cui Menon dedicò l’intera esistenza. Insegnamento e poesia, quest’ultima in totale solitudine, in silenziosa adesione: controcanto all’intensa vita sociale degli anni della maturità.

Qual è dunque la sostanza di un poeta? Per Menon si può dire che coincida con la sua doppia appartenenza al mondo del corpo e dello spirito, al suo vivere sospeso sullo iato, al suo tentativo eterno di colmare con l’arte l’incolmabile distanza tra terreno e divino. Ma un insegnante, quand’è educatore, quante anime accenderà  durante la sua esistenza? Una, due? Quant’è giusto che sia, perché la conoscenza è aristocratica, è di chi vuole, di chi crede e s’impegna: è segno distintivo che non guarda ai natali ma alla filologica ricerca di verità. Sono persuasa che Menon vivesse la tragica consapevolezza del proprio compito: non condivise il carico con nessuno- carico non trasmissibile se non oltre le limitatezze del vivere-, se non forse con pochi, immutabili affetti. Dal racconto del nipote professor Franco Bombi furono, con esiti diversi, depositari di questo fardello la madre (forse grembo e luce, forse remissiva appartenenza) e il padre (fratellanza virile, dunque chiusa, invalicabile); e la moglie, con cui condivise l’etica antiborghese, le stravaganze, e a cui rimarrà legato da un tacito patto di riconoscimento. Nonostante i reciproci tradimenti, la coppia procede serrata, forte, complice e ‘pura’ – mi si permetta l’ossimoro -. Quasi a sottolineare ciò che tutti in fondo conosciamo: che soli si nasce e si muore, soli si vive; ma che l’anima amica, in perfetta fratellanza, può con noi conversare dell’umano sconcerto dell’essere vivi.

È al momento dell’intervento del professor Antonio Carlini che qualcosa in me di più netto e forte fa capolino: il lungo e splendente intervendo di Sartori è quasi preludio a questa numinosa rivelazione. Si parla dell’uomo, si parla del metodo, si interviene a sottolinearne pregi e pecche, poi il professor Carlini legge questo sonetto di Menon:

 

Ritorno

Mia stanchezza, distenditi sul prato,

morbida e calda coltrice di sole:

piano ritorno dentro l’increato

sazio alla fine di aride parole.

 

E non mi duole più l’acuto iato

tra conoscenza ed essere, parole,

segni per me senza significato

nella smarrita estasi del sole.

 

Bevo alla fonte mistica dell’uno,

del quale sono un povero frammento,

eppure un tutto, pallido nessuno.

 

Nell’aria il fumo indugia, poi si sperde

con un fluttuare di velami lento:

l’anima si confonde con il verde.

(da Qui per me ora blu, KappaVu, Udine, 2013, p. 83)

 E come posso non farmi tirar per i capelli a quel testo suo gemello in prosa, che è Ragionamento al sole di Giovanni Boine? Dove appare lampante oltre ogni retorica, che il poeta come il mistico, l’artista come il mistico, nella propria laica preghiera di libertà che è la scrittura, che è l’arte, vivono coscientemente, tragicamente nello iato divaricato sotto l’umano; vivono sulla franosa frattura, e la stessa forza che li piega usano per tentare l’impossibile: creare ponti, vivere la comunione di quel sentire il tutto e tutto non poter abbracciare. Tranne poi tragicamente riscoprire che è nel gesto il compimento, che terminato quello tutto svanisce. Lo scrivere e poi il silenzio, la sempre uguale solitudine.

Così scrive Giovanni Boine, in quel suo Ragionamento al sole:

 «È peccato? È vergogna? Io son qui come una bestia contenta. Qui al sole; tutto nel sole, sdraiato, qui ogni mattina da un po’ (è peccato?). Lungo teso gambe allargate massiccio, sull’erba, con bene aperta la mia maglia sul petto, (tutto inondato di sole; e come si cuoce la pelle; come si screpola, scura, il cuoio!) e il cappello giù sugli occhi calato. (…)

Al diavolo il cervello e le note e le pagine scritte (è peccato? è vergogna?) che ora il mio mondo è quest’arsa montagna, rotta-ossuta di gran gobbe nude, gialliccia di ginestre e di grano qua e là; e questo cielo fondo (pauroso) al di là delle creste; e la radura qui intorno, breve, bruciata, ornata di appena verde erba, con ciuffi di cardi spinosi, coi grilli qua e là che scattano e stridono un attimo. Dico se è vergogna. Mi godo, zitto, il mio corpo che cresce, che vive (caldo, lento, appena animato) e sono una bestia contenta. Dico se è peccato. Non so più niente, non mi importa di niente più e l’anima mia se l’ha bevuta questa radura secca per le sue fessure di sete (…)».

 Dico che la biografia produce l’arte non dall’estetica sua forma, ma partendo da codesta forma ragiona, eviscera, contorce, ferisce e si ferisce, infine forgia, forse quando è tardi. Non è cosa che  il fisico regga, se non per un’unzione. Non lo si apprende.

 Queste righe vogliono essere un ringraziamento per avermi invitata a partecipare, Pasqua è alle porte, a questa resurrezione poetica, in un’epoca in cui ad ogni angolo si declama e si svilisce la poesia.

 Chiara Catapano

 

 

 

Chiara Catapano

Gian Giacomo Menon nacque nel 1910 a Medea (Gorizia), allora territorio austriaco. Dal 1937 all’anno della morte (2000) ha vissuto e insegnato a Udine.
Pensiero individualista, solipsista, pragmatista, sostenitore della isostenia dei logoi, definiva così i suoi «segnali di vita»: casualità, nudità, paura.

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