Ringrazio gli amici Cesare Sartori e Claudio Griggio per avere organizzato questo incontro, qui nella storica sede del Collegio di Toppo Wassermann, questo incontro per rievocare Gian  Giacomo Menon, una figura che è cara a tutti noi suoi allievi e che fu centrale nella nostra formazione liceale; e li ringrazio anche per avermi chiamato come testimone, un testimone che può andare con i suoi ricordi ben indietro nel tempo, perché io fui allievo di Menon nella prima metà degli anni ’50: dal 1951 al 1954.

 

     Menon amava poco le lezioni frontali, ex cathedra, perché aveva la vocazione dell’insegnante socratico che rifugge dalle declamazioni e vuol guidare gli allievi attraverso un percorso critico fatto di discussioni su singoli problemi che si annodano con altri problemi, ponendo molti interrogativi. Ho il ricordo di alcune spiegazioni sistematiche, brillanti per dottrina e chiarezza, sulla dottrina delle idee di Platone o sulla metafisica di Aristotele o sui sistemi filosofici di pensatori medievali e moderni;  ma chi si aspettava che seguisse passo passo il manuale restava deluso; anzi Menon ci invitava a non ripetere come verità quello che trovavamo scritto nel manuale, ma a vagliare ogni affermazione, a confrontare quel testo con altri testi che trattavano gli stessi autori, approfittando della biblioteca dello Stellini, a scovare gli errori di giudizio e anche di stampa che vi erano contenuti, a fare insomma una lettura sorvegliata di ogni pagina. Il suo scopo era chiaramente di svegliare in ognuno la coscienza critica e io credo che questo indirizzo sia stato per me, come penso per altri, molto efficace e importante anche nel percorso successivo. Che poco dipendesse dai manuali si vedeva quando parlava volentieri di Giuseppe Rensi o dell’opera La Persuasione e la Rettorica, la tesi di laurea importante discussa a Firenze da Carlo Michelstaedter. Erano autori ignorati nei programmi ufficiali. Come  la scelta di leggere il terzo anno Martin Heidegger, Was ist Methaphysik, nella traduzione di Armando Carlini era assolutamente innovativa. E sento che l’adozione di quel testo fu ripetuta più volte negli anni successivi.

 

     E c’era un tempo durante le ore di filosofia in cui si intratteneva con alcuni dei suoi allievi che facevano circolo intorno alla cattedra: parlava degli argomenti più diversi sollecitando anche il nostro intervento. Tutti noi avevamo una certa trepidazione per il suo giudizio trimestrale e finale, che si esprimeva certo seccamente con un voto, ma si aveva netta la coscienza che quel voto di ‘Filosofia’ andasse ben al di là della valutazione relativa alle rituali specifiche interrogazioni su temi filosofici e che investisse invece tutta la nostra personalità. Perché Menon scrutava nel profondo di ognuno. Quando in vista dell’esame di maturità e del salto poi verso l’università osai chiedergli un parere sulla scelta che avevo maturato, articolò con estrema schiettezza su di me un giudizio del quale gli sono ancora grato: disse che poteva indicare altri che erano di intelligenza più brillante e ardente della mia, ma che io potevo far leva su una forte determinazione e tenacia nel perseguimento degli obiettivi nella ricerca umanistica. Ho sempre fatto conto nella mia vita di questo giudizio che mi assicurava naturalezza nel riconoscere il maggior valore di altri e nel far leva sulla continuità dell’impegno intellettuale.

     E a proposito della mia determinazione e tenacia devo sfatare una leggenda che l’amico Sartori dice girava su di me negli anni successivi ai miei: io sarei stato l’unico esempio di uno studente che, nel corso delle vacanze estive di un solo anno, era riuscito a leggere una cinquantina di libri compresi in una sorta di canone che Menon consigliava di leggere. La verità è un’altra: io avevo avuto in dono da mio padre il Dizionario delle opere e dei personaggi di Bompiani che è un repertorio bibliografico analitico della letteratura mondiale messo insieme miracolosamente in tre anni dal 1947 al 1950, a cui hanno collaborato 500 tra letterati, critici, linguisti, storici della filosofia di prima grandezza coordinati da trenta direttori di sezione (basta fare i nomi di Attilio Momigliano, Eugenio Garin, Francesco Gabrieli, Giuseppe Billanovich, Giorgio Pasquali, Giorgio Petrocchi, Gennaro Perrotta, Norberto Bobbio, Sebastiano Timpanaro senior; è un bell’esempio – sono gli anni della rinascita dopo la guerra – di stretta ed efficace collaborazione intellettuale a un’impresa che poi avrà molte riedizioni). Io semplicemente  avevo detto al professor Menon che avevo potuto farmi una prima idea dei testi di quel canone che lui aveva consigliato, grazie alle ampie sintesi presentate in questo Dizionario che ancora conservo come prezioso. Ma la lettura di quelle pur autorevoli sintesi non poteva certo sostituirsi alla lettura diretta.

 

     Cesare Sartori nel profilo biografico premesso alla raccolta di poesie Qui per me ora blu ha molto bene indicato i pensatori e le correnti culturali alle quali si è ispirato. Mi permetterei di insistere, come ho già detto a Sartori, su Michel de Montaigne l’autore degli Essais il cui antidogmatismo e il cui scetticismo si manifesta nella domanda: «que sais-je?», che cosa so io? La lettura degli Essais ci era insistentemente raccomandata (una antologia fu adottata il secondo anno). Ma seguendo proprio Montaigne, che commenta e discute molti luoghi di autori classici, egli andava volentieri alla ricerca dei filosofi antichi che avevano professato il loro scetticismo: mi colpì un giorno la definizione che diede dei dieci tropi, cioè delle dieci proposizioni che secondo Enesidemo di Cnosso (filosofo seguace di Pirrone, tardo esponente dell’indirizzo scettico, risalente al I secolo a.C., contemporaneo di Cicerone), non possono che portare alla conclusione che si deve sospendere il giudizio, che non si può affermare la verità di qualcosa: questi tropi sono proposizioni che insistono sulla relatività del giudizio, sui vari condizionamenti che l’uomo subisce e che portano inevitabilmente all’ἐποχή, alla sospensione del giudizio. Dava di questi tropi una definizione icastica che mi è rimasta impressa: diceva che sono lo «schiaccianoci» di qualsiasi dogma, nel senso appunto che demoliscono ogni dogma.

     Di Enesidemo si trovava solo fugace menzione nel grigio Manuale di filosofia, che allora veniva generalmente adottato, di Eustachio Paolo Lamanna. Menon attingeva direttamente alle fonti antiche (Diogene Laerzio e Sesto Empirico) e anche a trattati di storia della filosofia di ben altro rilievo. E io mi figuravo che, dopo aver lasciato lo Stellini con la sua bicicletta nera (credo fosse una Bianchi), si ritirasse a casa sua nella sua biblioteca e come Machiavelli dice di sé nella confidenza che fa a Francesco Vettori nella lettera del 1513 «vestisse panni curiali» e conversasse con i suoi autori, antichi e moderni «e tucto si trasferisse in loro, sdimentichando ogni affanno». Non voglio certo dire che Menon considerasse la scuola alla stregua dell’osteria di San Casciano dove Machiavelli sostava volentieri e si «ingaglioffava giocando a cricca e a tricttrac», prima appunto di ritirarsi nel suo studio. Menon amava la scuola e l’esercizio concreto dell’insegnamento, ma (così appariva a me) sentiva ancor di più l’esigenza di stare per una buona parte della giornata solo con se stesso, in un eremitaggio impenetrabile.  Che le molte letture e le meditazioni solitarie di Menon dovessero produrre frutti non c’era dubbio. Ma io pensavo che nelle sue carte si trovassero pensieri, riflessioni nati da meditazione personale e dal dialogo con gli autori del passato come appunto sono gli Essais di Montaigne o lo Zibaldone di pensieri di Leopardi. Ora sappiamo grazie all’appassionato lavoro di ricerca tra le carte lasciate da Menon fatto da Cesare Sartori che ha dedicato le sue ore in isolamento soprattutto alla produzione di versi.

     Leggendo la raccolta curata da Sartori, ho trovato un componimento poetico composto tra gli anni ’40 e la fine degli anni ’50 che forse, se ho bene inteso, lascia trasparire la sua visione filosofica ed esistenziale:

 

Ritorno

Mia stanchezza, distenditi sul prato,

Morbida e calda coltrice di sole:

Piano ritorno dentro l’increato

Sazio alla fine di aride parole

 

E non mi duole più l’acuto iato

Tra conoscenza ed essere, parole,

Segni per me senza significato

Nella smarrita estasi del sole.

 

Bevo alla fonte mistica dell’uno,

Del quale sono un povero frammento,

eppure un tutto, pallido nessuno.

 

Nell’aria il fumo indugia, poi si sperde

Con un fluttuare di velami lento:

L’anima si confonde con il verde.

 

Significativa l’espressione «iato fra conoscenza e essere»: la vita intesa come incessante ricerca del vero che produce anche sofferenza senza mai riuscire ad afferrare il suo oggetto. Ma ci sono momenti in cui sembra di essere in unione mistica con l’Uno rispetto al quale ci si sente una pallida ombra.

      Posso anche confermare il particolare legame di amicizia che Menon aveva con Alessandro Ivanov che allora a noi insegnava italiano. L’indirizzo critico allora imperante era il crocianesimo, ma Ivanov si teneva ben lontano dagli eccessi che portavano alla totale svalutazione del lavoro di scavo filologico al quale ero particolarmente sensibile fin dagli anni del liceo. Erano allora, Menon e Ivanov, le due punte di diamante della sezione A del liceo Stellini e qui mi piace associarli nel ricordo.

 

                                                                  Antonio Carlini *

* Accademico dei Lincei

 

 

Antonio Carlini

Gian Giacomo Menon nacque nel 1910 a Medea (Gorizia), allora territorio austriaco. Dal 1937 all’anno della morte (2000) ha vissuto e insegnato a Udine.
Pensiero individualista, solipsista, pragmatista, sostenitore della isostenia dei logoi, definiva così i suoi «segnali di vita»: casualità, nudità, paura.

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